Barbarossa di Kurosawa Akira

I capolavori non si programmano” scrive Aldo Tassone nel Castoro parlando dell’impegno profuso da Kurosawa per un film che, in fin dei conti, delude sotto vari aspetti.

Dunque stavolta Kurosawa ha voluto scalare il cielo e, come i Titani, ha fatto un ruzzolone. Ma Titano rimane, e lungo le tre ore del film riesce ancora a dimostrarlo qua e là, senza bisogno di ricorrere, come fa, ad Haydn e Beethoven, alla perfezione della fotografia e all’Eroe Sublime che Mifune incarna a dispetto del regista che l’avrebbe voluto più umano (con questo film finì il loro magnifico sodalizio).

Un ospedale/clinica/lazzaretto di primo ottocento, ma tutto molto giapponese, lindo, ordinato (quando si parla di Giappone meglio dimenticare scenari alla Dickens).

Yasumoto, giovane della upper class,master di medicina in Olanda,carriera aperta a corte, resta bloccato nelle “grinfie” di Barbarossa, soprannome del primario burbero/benefico del genere “da Ippocrate ad oggi la scienza medica ne ha fatta di strada, ma quello che conta è il rapporto umano col paziente”. Rapporto difficile tra i due, sulle prime, iniziazione alla professione attraverso esperienze traumatiche (operazione senza anestesia, la piccola Otoyo schizofrenica affidata solo a lui piuttosto impacciato ma tanto diligente, la pazza mantide che quasi l’uccide) e finale edificante, troppo edificante, con musica in crescendo, battute giustamente finto burbere di Barbarossa, dissolvenze e tutto.

Citare a confronto richiami a I Miserabili o a Umiliati e Offesi si può, ma sembra un po’ eccessivo. Lo sfondo sociale, le problematiche legate a tempi e luoghi della miseria si avvertono conditi di un certo artificio che a volte sfuma in retorica. Mifune che trasforma il cortile del bordello in una palestra di arti marziali o nel saloon di un western in cui, solo contro tutti, ne fa fuori una decina, è davvero impagabile, e quel gesto reiterato di lisciarsi la barba alla fine diventa troppo esibito.

Eppure la mano dell’ “imperatore” c’è e si sente, ma dove? Nelle donne del film.

Forse perché Kurosawa è considerato un regista “virile”, forse perché lui stesso amava considerarsi tale, questo aspetto è sfuggito alla strategia di costruzione del film “magnifico, che obbligasse gli spettatori a guardarlo”.

Le donne di Kurosawa sfuggono ad ogni clichè, sono vere, e questo le rende immuni da tentazioni agiografiche da parte di chiunque.

La pazza mantide stuprata a ripetizione nel negozio del padre, che poi la parcheggia nella prigione dorata della clinica, la piccola Otoyo murata nell’ossessiva coazione a ripetere il gesto di pulire il pavimento, la sposa dell’amante di sua madre che porta i figli al vecchio padre morente,dimenticato per tanto tempo, perché lei deve farsi un po’ di galera visto che a tutto c’è un limite e a volte si perde il lume della ragione, le donne che in forze buttano fuori con manganelli di stracci la ridicola tenutaria del bordello che vuol riprendersi Otoyo rimessa a nuovo, e poi quel coro sulla bocca del pozzo per fermare l’anima del topino che sta per andarsene.

Momenti, flash, nell’economia del film, ma di trasparente purezza, camei che non valsero, nel’65, nessun premio alle interpreti.

Il cinema “virile” di Kurosawa guadagnò invece la coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione maschile a Toshiro Mifune.

titolo originale: Akahige 

Giappone 1965 durata 185’  b/n

di Kurosawa Akira

con Toshiro Mifune, Yuzo Kayama, Chishu Ryu, Kinuyo Tanaka

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