Brother

 

Uno yakuza a Los Angeles.

Stessa faccia immobile di sempre, triste, impenetrabile e ironica, parole al contagocce, vestito e occhiali neri, sta cercando il fratello americanizzato, dopo l’annientamento della sua famiglia mafiosa in una guerra tra bande a Tokyo.

Lo step successivo sarà una guerra feroce per la supremazia nel traffico della droga, lo yakuza movie più disseminato di morti, dita tagliate e atrocità varie che Kitano abbia messo in scena.

Appena l’inquadratura fuori dell’aeroporto da sghemba torna a raddrizzarsi, Yamamoto sale sul taxi e “Lei è giapponese?” gli chiede il tassista. Silenzio. “Vuole che presenti qualche ragazzina niente male?”. Silenzio. “Quest’idiota non parla nemmeno la mia lingua” commenta il taxista americano ciccione.

E’ proprio lui, Beat Takeshi l’inconfondibile, il killer leggendario che ammazza come nessuno, basta che tenda il braccio, immobile, implacabile, ne fa fuori dieci in un colpo (“A chi hai detto fottuto giapponese?” e scarica il caricatore a completare l’opera delle pistole incollate sotto il tavolo, nell’incontro al vertice tra capi mafia per il controllo del territorio).

Lungo la strada che dal paladino Roland con la sua Durendal arriva a Star Wars, Era dei Duelli in consolle, c’è questo cinema di altissima qualità autoriale, privo della sia pur minima sbavatura, che  prende per il collo quella caratteristica innata nell’uomo che è la sete omicida (da Caino, almeno), la guarda negli occhi, la sbatte in primo piano con l’evidenza più plateale possibile e, saltando a piè pari tentazioni retoriche e piagnistei, psicologismi e sociologismi, compiacimento e spettacolarità, mette in scena la più efferata carneficina si riesca a compiere con pistole e mitragliette. E la intitola Brother.

Un cinema di altissima moralità, quello di Kitano, e la trasferta americana non snatura il suo stile inconfondibile, anzi, se mai gli offre il pretesto per strizzare l’occhio a Coppola e Scorsese, Van Damme e Spike Lee, invece che a Kurosawa, stavolta, producendosi in qualche gag in più, irresistibile, sugli americani che guardano i giapponesi.

Una violenza così esibita potrebbe sembrare addirittura caricaturale, molto suggestionata dallo splatter di Tarantino, se non ci fossero una mano di ferro registica e uno stile personalissimo a renderla unica.

Kitano ci parla dell’uomo, è questo il fulcro, la partenza e l’arrivo, e lo fa con tono austero e scontroso, autoironico e grottesco, divertito e commosso.

Il nero dell’ultima scena, the real brother , infila una sequela di “Oh cazzo!” forse unica nella storia del cinema, ma riesce a parlarci, e quanto!, di amicizia e fratellanza, vita che s’impone prepotente, nonostante tutto, destino che fa i suoi giochi e trappole in cui l’uomo va ad infilarsi, neppure lui sa spesso come.

C’è qui l’America trash, quella scorticata dei vicoli all’odor di spazzatura e quella degli hotel lussuosi, dove le mafie internazionali tengono briefing e cene di lavoro con succulenti cortei di escort al seguito.

C’è il paesaggio scabro, polveroso, dell’America on the road, delle lunghe strade che si perdono all’orizzonte e il mare si fa fatica a trovarlo, ma per un attimo c’è, e il gioco alla Sonatine, la roulette russa con beffa nella variante americana, ha luogo.

L’accento siculo-americano del malcapitato sembra, a questo punto, quasi la consacrazione dell’internazionale mafiosa.

La musica di Hisaishi segue Kitano in trasferta e respira l’aria degli States, tesse accordi in cui il Giappone sembra un’eco lontana, con prevalenza di archi e fiati (un sax tenore attacca subito fuori dell’aeroporto, seguito dalle ampie volute degli archi, mentre la scritta a caratteri rosso sangue, incerti, infantili, scrive il titolo) commenta e alimenta come sempre il cambio di scena inaspettato, la brusca variatio che lascia straniati, fino a che ci ricordiamo che è la vita a cambiare sempre accordi, mica il cinema!

Voi giapponesi siete imperscrutabili” gli dice il vecchio barista nell’ultima sosta, mentre dietro i vetri appaiono le macchine dei sicari.

Un sorriso appena accennato gli sfiora quel viso sghembo e cicatrizzato, si gira ed esce, la porta rossa si chiude alle sue spalle, un attimo e sarà perforata da colpi che si distribuiranno sul legno in un disegno armonioso.

La sospensione estatica dei silenzi e l’aereo di carta che vola seguito dai violini e dallo sguardo incantato di due yakuza implacabili, la gerarchia yakuza rigida, fatta di cerimoniale, senso dell’onore, rispetto religioso dei capi e totale impassibilità di fronte a corpi fatti a pezzi, tutto sembra volerci lasciar fuori da questo mondo, è un Giappone in cui tradizione e omologazione tracciano strade che Kitano scopre e percorre senza un seguito che possa dirsi del suo livello.

Gli hanno chiesto, due anni dopo: “Cosa ha significato nella poetica di Kitano fare un film come Dolls, che scende nel profondo della cultura giapponese e rappresenta la morte, conseguenza della violenza, dopo aver girato in America Brother, dove protagonista è la violenza?”

Non c’è un motivo ben preciso, potrei dirne tanti -ha risposto Kitano farmi una domanda così equivale a chiedere perché hai pensato Dolls dopo Brother. Mi viene in mente la scena in cui un tipo che è stato ucciso va sottoterra e un altro gli chiede “Perché sei stato ucciso?”, “Per incontrarti!”,risponde quello.

Giappone/USA/Gran Bretagna, 2000, durata 110’

di Kitano Takeshi, con KitanoTakeshi, Omar Epps, Claude Meki, Masaya Kato, Susumu Terajima

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