Cane randagio di Kurosawa Akira


Il crudo realismo di un visionario, un cinema di azione e di denuncia sociale, un noir con suggestioni alla Lang, un percorso di formazione e una vertiginosa incursione nell’abisso dell’animo umano.

Tutto questo è Cane randagio, fino al finale, stupefacente, alla Kurosawa, appunto.

La canicola preme sui bassifondi di Tokyo, indagati con minuzioso realismo nella miseria corrotta e spettrale di un dopoguerra in processo di americanizzazione, brandelli di una hit parade musicale dell’epoca escono da locali equivoci, tavole calde, music hall per poveri cristi dove si esibiscono ballerinette di scarso appeal, disfatte dal sudore e dalla fatica tra una coreografia e l’altra.

Polvere, calca e odori nauseanti sul tram stordiscono il poliziotto Murakami, e la colt con sette colpi in canna che ha in tasca sparisce presto per finire sul mercato nero.

Un Mifune stravolto, febbrile, teso allo spasimo nella ricerca di uno strumento che seminerà morti in giro e macigni sulla sua coscienza, attraversa in una memorabile sequenza di venti minuti questo universo desolato di neorealismo nipponico, tracce e indizi si rincorrono, sfuggono e si riannodano, mentre l’identikit del ladro si va componendo nelle voci e nei sentimenti di chi in qualche modo ha incrociato la sua vita.

Prima ancora di vederlo in azione nella scena chiave del film, Yusa, sbandato reduce di guerra, cane randagio inevitabilmente destinato a diventare un cane rabbioso da abbattere, è nelle parole della sorella che mostra il tugurio vuoto del fratello che, un giorno, ha visto piangere con la testa fra le mani “La guerra lo ha cambiato – racconta – da quando gli hanno rubato lo zaino si è messo a frequentare cattive compagnie”.

Ma Yusa, che uccide per pagarsi una vita di cui non sa che farsene, è lo stesso che regala alla ballerina Hirumi quell’abito lungo che lei fa ruotare, rapita, come una corolla e che la madre le strapperà di dosso buttandolo, povero fiore appassito, sotto la pioggia sul davanzale.

Solo l’evidenza di un destino criminale senza vie d’uscita la porterà da Murakami per rivelargli dov’è Yusa.

Il furioso duello finale, con la lotta fra le erbe, i fiori e l’acqua della palude, le ultime pallottole che sbagliano il loro corso e il sangue della mano di Murakami che cade sui fiori, l’urlo straziante di Yusa e il canto sereno, inaspettato, dei bambini in corteo sullo sfondo, costruiscono un quadro tra i più straordinari del genere.

L’asciutto ritmo narrativo del poliziesco si trasforma in una crescita metamorfica, in cui il tratto furibondo si stempera in accordi di cristallina purezza, e la pietas riprende il suo posto.

Lo sguardo di Murakami sul disperato ladro omicida è su sé stesso e su quel margine sottile che ha segnato la differenza del proprio destino rispetto all’altro.

Tu capisci troppo bene i tipi come Yusa, per noi un criminale è un criminale, dobbiamo arrestarlo prima che commetta altri misfatti” gli aveva detto il saggio Sato, commissario/ mentore dell’inesperto e impulsivo Murakami.

Takashi Shimura è perfetto nella parte del maestro pacato che conosce le regole, sa muoversi tra ladri e prostitute con giusto mix di cinismo e bonarietà, non s’illude sugli uomini.

Il severo arbitrato della Legge può riportare l’ordine dove quello umano è ormai smarrito, ma, sembra dirci Kurosawa, la redenzione liberatrice non può essere solo lì.

Quel canto e quei fiori dicono, con Dostoevskij, che solo“la bellezza, misteriosa e terribile, salva il mondo”.

titolo originale: Nora inu – Giappone, 1949, durata 122’, b/n

di Kurosawa Akira

con Mifune Toshiro, Shimura Takashi, Kimura Ko, Awaji Keiko

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