C’era un padre

Chichi ariki – Giappone, 1942 durata 94’ b/n

di Ozu Yasujiro con Ryu Chishu, Sakamoto Takeshi, Sano Shuji, Himori Shinichi, Mito Mitsuko, Otsuka Masayoshi

Tra il ’42 e il ’44 i cineasti giapponesi ebbero il loro da fare per sfuggire alle maglie della censura che imponeva di girare film edificanti sui valori nazionali.

Kurosawa e Kinoshita erano giovanissimi alle prime armi, ma seppero “…additare nuove strade che avrebbero permesso di uscire dal vicolo cieco in cui il cinema nipponico pareva essersi ingolfato” (Anderson-Richie, Il cinema giapponese, 1961, p.138).

Nume tutelare fu, all’epoca, il grande Ozu, senza il cui appoggio Sugata Sanshiro di Kurosawa non avrebbe visto la luce: “Se cento punti è il massimo – disse il regista alla commissione militare – il film di Kurosawa merita centoventi”.

Ozu aveva ormai una lunga carriera alle spalle e potè permettersi di girare C’era un padre e Il fratello Toda e le sue sorelle adattandoli al suo stile “…in modo da non sottolinearne affatto le tesi politiche, soggette invece ad una critica appena mascherata” (Anderson-Richie, cit, p.371).

La storia di C’era un padre, di stampo minimalista tipico di Ozu, ha in sè un valore aggiunto, ed è l’elemento autobiografico.

Come Ryhoei, il figlio nel racconto, anche lui fu separato dal padre tra i 10 e i 21 anni per andare a studiare a Kyoto, e quando potè riunirsi alla famiglia il padre fu stroncato da un colpo apoplettico.

Impossibile non pensare, allora, che Citizen Kane, il suo film preferito, scoperto a Singapore negli anni passati in prigionia e a fare incetta di nuovi film americani proibiti in patria, non l’abbia folgorato innanzitutto per il riflesso personale dell’indimenticabile Rosebud.

C’è dunque in C’era un padre il commosso ricordo di un’infanzia solitaria, trascorsa tra convitti e pensionati universitari, con compagni anch’essi lontani da casa.

Un treno passa sbuffando in una scena, i tre amici seduti con i libri sulla spalletta di un ponte sono ripresi di spalle:

Se fossi su quel treno potrei tornare a casa” dice uno dei tre.

Com’è lungo quel treno!” dice un altro.

Piccoli, brevi momenti per parlare di un vuoto molto grande.

Anche il dolore del piccolo Ryhoei all’inizio del film è colmo di pudore. Infatti si alza e va sulla porta, non vuole che il padre veda le sue lacrime quando gli dice che dovranno separarsi.

C’è una misura fatta di riservatezza, dignità e discrezione nel vivere la gioia come il dolore nel mondo di Ozu, un’accettazione della realtà che fa sentire l’emozione che passa negli sguardi e nei silenzi senza scoprirsi, ed è tanto più forte.

Il professor Horikawa, vedovo (Chishū Ryū, qui ancora molto giovane, non abbandonerà più Ozu) insegna nella scuola media della città di Kanazawa.

Un terribile incidente avvenuto durante una gita scolastica (Yushida, un alunno, è affogato durante una gita in barca fatta all’insaputa degli insegnanti) lo carica di sensi di colpa al punto da abbandonare l’insegnamento.

Non se ne sente più all’altezza e a nulla valgono le esortazioni di Hirota, un collega anziano interpretato con rara intensità, pur nella piccola parte, dall’altro attore feticcio di Ozu, Sakamoto Takeshi, capace di medesima bravura in ruoli tanto diversi (in Capriccio passeggero e Storia di erbe fluttuanti dà vita a guitti e sottoproletari con notevoli prove attoriali).

Il primo treno del film porterà padre e figlio per una breve parentesi a Ueda, nel tempio di un bonzo per un lavoro provvisorio, poi ci sarà Tokyo e un lavoro da travet.

Il legame fra padre e figlio è solido, pacato, Ryhoei accetta con la serietà di un ometto le decisioni del padre. Mentre pescano sul fiume muovendo le lenze con ritmico equilibrio di gesti saprà che il felice esito degli esami segna il primo distacco dal padre, dovrà vivere in convitto e il padre lavorare lontano per pagargli gli studi.

Le tappe successive lo allontaneranno sempre più, il padre è dolce e premuroso, ma severo e irremovibile sulla necessità di studiare per crearsi un lavoro di cui essere degni.

Ryhoei diventerà insegnante come il padre e il nonno, che un tempo insegnava letteratura cinese. Sembra un destino in famiglia, ma il desiderio più grande di Ryhoei sarà sempre tornare a vivere col padre.

Passerà con lui l’ultima settimana, la più felice della sua vita, prima di assisterlo sul letto di morte.

Le ultime parole di Horikawa sono: “ Sono felice. Ryhoei, fai del tuo meglio, non essere triste. Il tuo papà ha fatto quello che poteva. Ho tanto sonno…”.

Lo circondano gli ex alunni che lo hanno ritrovato a Tokyo e festeggiato insieme a Hirota, anche lui ritrovato dopo tanti anni (e ancora tanti anni dopo anche Kurosawa celebrò anche lui con Madadayo la bellezza del legame professore/alunni).

Ryhoei, ora adulto e felice sposo di Fumiko, la bella figlia di Hirota che il padre ha voluto per lui, lo guarda come faceva da bambino, accettando la sua volontà e trattenendo le lacrime.

Poi scappa in un angolo ed è ripreso di spalle.

Sull’ultimo treno che lo riporta al suo lavoro dice sorridendo a Fumiko:

Ho desiderato per tutta la vita di vivere con mio padre, e ora che è morto questo sogno si è infranto. Ma sono contento di essere vissuto con lui una settimana. E’ stata la settimana più bella della mia vita. E’ stato un padre eccezionale ”.

Poi il sorriso si spegne mentre guarda fuori dal finestrino nella notte.

Bagagli anonimi sulla reticella sono l’ultima inquadratura mentre il pennacchio bianco di fumo si allontana.

Poesia degli oggetti inanimati, natura morta su un treno in corsa.

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