Confidenze troppo intime di Patrice Leconte

Anna (Sandrine Bonnaire) è una donna sposata e infelice.

Come molte donne credono sia giusto fare, va dallo psicanalista, ma a volte succedono cose veramente incredibili. Sbaglia porta, invece che alla terza a sinistra suona alla terza a destra (tende a confondere sinistra e destra, succederà ancora, più avanti, con il bagno, Leconte dissemina piccoli particolari e indizi, la vicinanza a stilemi hitchcockiani è notevole anche in questo) e si ritrova a confidare i guai del suo matrimonio ad un consulente fiscale, William Faber (Fabrice Luchini).

William, sbalordito, la lascia parlare. Occhi sgranati, mimica facciale perfetta,  ogni muscolo è controllato, paralisi della volontà, impotenza decisionale e desiderio, c’è tutto in quel viso rotondo, né bello né brutto, di una normalità impressionante.

Ogni volta che è lì lì per dire “Ma cara signora, cosa crede…” c’è qualcosa che glielo impedisce, e, a ben vedere, spesso è proprio lei che chiude frettolosamente la “seduta”, fissa l’altro appuntamento e via di corsa perché perde il treno.

L’ex di lui, che intanto se ne sta col palestrato in tuta e fuoristrada e che ha mantenuto col fiscalista buoni rapporti e ci va anche a letto qualche volta così, tanto per non si sa cosa (alla fine scopriremo che è lei l’unica ad andare da un vero psicanalista), gli dice: “Ma come, sei pazzo? devi dirle che non sei il dottor XY, che senso ha?”

Il senso ce lo racconta Leconte, con i suoi millimetrici e inesorabili avanzamenti nel profondo dei suoi personaggi, aiutato dalla sceneggiatura di Jerome Tonnerre distillata, essenziale, non una parola di troppo e la musica, ora da thriller ora da favola romantica, di Pascal Esteve.

Completa l’opera la scenografia anni trenta di Ivan Maussion, che la fotografia di Eduardo Serra illumina con filtri per interni claustrofobici, come ipnotici, per poi far irrompere luce e sole nel finale mediterraneo, con un prevalere di toni rosati da favola d’altri tempi.

Confidenze troppo intime è un film che sollecita uno sguardo da “giallista” fin dall’inizio, ha ritmo, sonorità e tecnica di ripresa del thriller: prima scena, tic tac tic tac, sono le polacchine nere di lei, moda anni quaranta, forse anche trenta, inquietanti, che battono sul selciato e la mdp le segue fin dentro la guardiola della portiera.

Un televisore sta mandando una telenovela stile Uccelli di rovo d’anteguerra, tornerà a più riprese qualche breve scena e il contrasto con il resto del film è di raffinato umorismo (del simil-padre Ralph alla fine verrà fuori perfino l’omosessualità).

Tutto quello che accadrà, dopo il fatale sbaglio d’indirizzo, o sarebbe meglio dire non accadrà, sarà una schermaglia sottile di piccoli gesti e di sguardi, un piacere reiterato del gioco seduttivo fine a sè stesso, una scoperta di complicità che si consuma tutta nell’ascolto e nella confidenza, ma che riesce ad avere l’aspetto dell’appagamento pieno, per entrambi, al punto da modificare stili di vita e scelte di comportamento.

Accorgersi dell’equivoco fin dalla seconda seduta non ha cambiato le cose per Anna, e forse addirittura ha reso tutto più attraente.

Viene il dubbio che l’abbia fatto volutamente, ed è uno dei misteri del film, come la sua storia col marito, di cui emergono versioni contrastanti.

William viene letteralmente scardinato da una condizione catatonica di vita in una casa/studio ereditata dal padre, spazio di ordine maniacale da cui non si è mai mosso, scaffale di giocattoli infantili conservati con cura gelosa, (l’espressione inorridita quando lei ne prende uno in mano per dargli la corda è quella del bambino che non vuole si tocchino i suoi giochi) ed è portato ad una rivisitazione della sua vita che si traduce, ad esempio, nell’abolizione della cravatta, (l’occhio della segretaria, una delle caratterizzazioni cinematografiche meglio riuscite del personaggio, va proprio lì, sul suo collo libero e lui lo sente su di sè, benchè sia seduto e lei in piedi dietro).

Bisogno di comunicare e trovare un orecchio disposto all’ascolto, il mistero è tutto lì, in quel momento in cui riconosciamo di poterlo fare e non sappiamo perché è quello il momento e quella la persona giusta.

Due cose fondamentali mi hanno interessato in questo film, – dice Lecontefin dal punto di partenza di una semplicità totale, qualcuno che dovrebbe suonare alla terza porta a sinistra e invece suona alla porta a destra. È il caso che smuove tutto e per me è formidabile. Ma il momento che ritengo ancora più importante è quello in cui lei apprende che l’uomo non è uno psicoanalista ma un consulente fiscale. Allora se ne va. Ma poi ritorna. Per me è un momento commovente che riassume tutto il film, vuole dire semplicemente che la donna ha trovato qualcuno che sa ascoltarla … ci si domanda chi sia questa donna, cosa voglia. È solo una donna la cui vita non funziona col marito? Una spia al centro di un incredibile complotto? È risorta dal passato per saldare i conti? Il marito esiste veramente? Non si sa. Volevo gestire questa parte di mistero, le zone d’ombra sono importanti”.

Dunque solitudine e bisogno di attenzione, forse di amore, voyeurisme nell’ascolto, ma anche nel vedere, c’è anche qui una finestra (Hitchcock) e ricordiamo L’insolito caso di Mr. Hire con quel guardare l’amore altrove del sarto solitario (“Ci sono punti in comune, ma quello era un film secco, sobrio, questo è più carnale”), lì il finale è drammatico, qui è catartico, sensuale e discreto al tempo stesso, liberatorio per entrambi, perché, continua Leconte: “Il miglior momento dell’amore è quando si salgono le scale, tanto meglio se il piano è più alto perché il momento si prolunga. Parlare d’amore o di sesso, far planare sulle teste un profumo di desiderio, di erotismo è qualcosa che io trovo estremamente cinematografico, mi piacerebbe che la gente uscisse dalla sala per andare a fare l’amore” .

Nell’ultima scena la macchina li riprende dall’alto, come in un caveau, mentre parlano tranquilli, lui in poltrona e lei distesa su quel divanetto che nella prima scena aveva creduto dello psicanalista.

La storia di una donna che aveva sbagliato  porta finisce, forse, qui.

titolo originale: Confidences trop intimes 

Francia 2004 durata 104’

di Patrice Leconte

con Sandrine Bonnaire, Fabrice Luchini, Michel Duchaussoy, Anne Brochet

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