Così ridevano di Gianni Amelio

 

A ragione definito il più “scorsesiano” dei film di Amelio, Così ridevano, girato sei anni dopo, sembra precedere il Ladro di bambini del ’92 per il tema della paternità surrogata, che qui è uno dei motivi fondanti del film, in quello diventa il leit motiv incarnato dal carabiniere Antonio.

Al centro del mio film c’è un sogno” dice Amelio, ed è il rapporto complesso, tormentato e viscerale dei due fratelli siciliani, Pietro, il piccolo, che studia da maestro a Torino e Giovanni, analfabeta in cerca di riscatto sociale, autoinvestito del ruolo di fratello/padre, che lo raggiunge, carico di valigie di cartone e pacchi, con uno di quei treni del sud che in quegli anni scaricarono tonnellate di forza lavoro a basso costo per gli industriali del nord.

Intorno a questo centro, topic della storia, ruotano tanti corollari che si sgranano in una Torino tetra, fumosa di nebbia e rabbia repressa, dove scorrono sei giornate su un arco di sette anni, dal 1958 al 1964 (Arrivi, Inganni, Soldi, Lettere, Sangue, Famiglie), in un impianto teatrale di atti dentro i quali si compone, volta per volta, l’evento che dà il titolo e segna gli snodi.

La storia scorre ellittica, certo, a tratti addirittura enigmatica, lascia allo spettatore il compito di raccogliere indizi, ma è la scelta coraggiosa di Amelio quella di ricomporre faticosamente in unità le schegge di questo “atomo opaco del male”, dove quel che dovrebbe essere dato per certo, per scontato, per basilare alla convivenza umana, in realtà non lo è.

E si tratta dell’amore per un fratello, della possibilità di vivere dignitosamente per tutti, del non vedere cartelli “non si affitta a meridionali”, del non essere trascinati in gattabuia se si parla un dialetto diverso, del non aver bisogno di sottotitoli in italiano per le sale cinematografiche del nord (“A malincuore, come Olmi in “L’albero degli zoccoli”, forse dovrò metterli in alcune copie del film. È molto più espressiva una parola difficile di una stupida: io preferisco la verità della parola autentica alla finzione di un doppiaggio addolcito e generico”)

Tutto questo ci racconta Amelio, e continua a raccontarcelo anche oggi, basta spostare le lancette dell’orologio e cambiare qualche nome.

La fotografia di Luca Bigazzi è sgranata, virata al nero, non vuol dare tregua nè consolazione all’occhio, deve far vedere cos’era vivere, allora, in sotterranei bui, spalare carbone per poche lire che ti davano se le chiedeva l’amico con l’accento piemontese; perfino nel lurido pub sembra tutto fatiscente, sfatto.

La tenera famigliola che scende dal treno con Giovanni e che Pietro, nascosto dietro una colonna perchè si vergogna del fratello, seguirà per un po’ come ipnotizzato, sprofonda nella nebbia, si perde fra severi e sontuosi palazzi savoiardi, mangia il povero pane avvolto nella carta oleata seduta sul bordo di una fontana, trasale alla vista della Mole Antonelliana e alla fine tornerà in stazione, incapace di trovare l’indirizzo giusto.

Giovanni sopravvive, l’amore per il fratello è così totale e primordiale da impedirgli di arrendersi, ma la sua rabbia di uomo mite segnerà il destino di entrambi.

Orfani non solo di famiglia, orfani soprattutto di una terra, come tanti, Giovanni e Pietro seguiranno la strada scelta per loro da questa bella Italia dello sviluppo senza progresso (in quegli anni Pasolini ci regalava Accattone e Mamma Roma), quel rapporto tormentato alla fine troverà una strada, dolorosa, ma pur sempre capace di tenere insieme un legame.

Resta l’amara riflessione su una cultura stritolata dal benessere raggiunto, e l’ultimo quadro ha una fotografia diversa, c’è luce, ma sembra artificiale.

Italia, 1998, durata 124’

di Gianni Amelio

con Enrico Lo Verso, Francesco Giuffrida, Fabrizio Gifuni, Rosaria Danzé

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