Diario di un maestro di Vittorio De Seta

Molte cose sono ancora identiche, molto è cambiato.


Vedere a tanti anni di distanza (uscì nel ’72) il Diario di un maestro di De Seta, liberamente tratto dal romanzo/diario Un anno a Pietralata di Bernardini del ’68, leggere i dati auditel di ascolto delle quattro puntate trasmesse allora in televisione (la versione integrale è di 290 minuti, 12 milioni di media a puntata), vedere quelle periferie romane (Tiburtino 3, Pietralata) fatte di casermoni o baracche, ruderi di antichi acquedotti di età imperiale e prati brulli  attraversati da rigagnoli, crea le emozioni di un’esperienza tra il romantico e il fantascientifico, ma di una fantascienza rivolta al passato.


Nulla è più riconoscibile, oggi, di quegli spazi, personaggi, motivazioni alla base dell’assunto pedagogico che dettò il romanzo e suggerì il film.
 Ci chiediamo su quale pianeta siamo approdati nel frattempo, dov’è che la navicella ha sbagliato rotta per finire nel mondo in cui è finita, la scuola delle tre I (Inglese, Internet, Impresa, che un simpatico post del PD modifica con Impoverita, Invecchiata, Inadeguata).


Molte cose sono ancora identiche, molto è cambiato.


Resta la marginalità. 
Quella scuola elementare con i suoi rituali ammuffiti, quei discorsi vuoti in sala insegnanti di una categoria demotivata in partenza, detentrice di un inconsapevole cinismo nel liquidare come “classe di scarti” un gruppo di ragazzi difficili, quel direttore presente solo per sanzionare in perfetto “burocratese”, quel fornire un sapere estraneo, da incollare alla meno peggio nella memoria-tampone, che ben presto lo espellerà, lasciando il vuoto, quegli edifici tirati su alla peggio, vecchi già da nuovi, con il  soffitto che ha forti probabilità prima o poi di crollare,  tutto questo è immutato.


Cosa è cambiato? 
Il maestro che arriva da lontano carico di illusioni e affitta una stanza a 35.000 lire, un quarto del suo stipendio. Decide di non ricorrere a forme di autoritarismo né di moralismo, quei ragazzi devono capire da soli che violenza, ignoranza, paura sono i veri nemici, e non convengono, ci conviviamo ma dobbiamo sconfiggerle.


Perché uccidere o torturare le lucertole? 
La lucertola vive nei campi perché ama la libertà, ecco dove porta il discorso pedagogico del maestro.
Quei ragazzi non lo vedranno più come un nemico, quando lui li va a raccogliere nelle borgate per portarli in classe lo seguiranno, anche se non ha l’aria del missionario.

Bruno Cirino, un attore perfetto per quella parte, parla poco, non fa proclami, De Seta ci presenta un mondo che dovrebbe essere normalmente così, non si diventa eroi perché si crede che questo sia normale.


Eppure tutto questo ora non c’è più.


Non ci sono più quei maestri, o, se ci sono, non ci sono più quei ragazzi.
 Neanche quegli spazi di verde desolazione a perdita d’occhio esistono più, e dunque le rane e le lucertole è difficile trovarle a due passi dalla scuola. Discariche e urbanizzazione selvaggia ne hanno preso il posto.


Il carabiniere che accompagna in classe, tenendolo per l’orecchio, lo stupidotto che ha fatto partire una macchina parcheggiata mandandola contro un muro, oggi arriva in drappello con cani anti-droga.



Quel maestro, quella scuola, quei ragazzi poveri e rumorosi, violenti solo fino a quando uno non dimostra loro le ragioni della non violenza, oggi sono nei libri e nei film di un tempo molto lontano.


Pasolini e Don Milani, De Seta e Bernardini quarant’anni dopo. 
Un confronto necessario, peccato non farlo almeno una volta l’anno.

Diario di un maestro

Italia, 1972, durata 135’

di Vittorio De Seta

con Bruno Cirino, Massimo Bonini, Luciano Dal Croce

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