L’amore di Roberto Rossellini

Questo film è un omaggio all’arte di Anna Magnani” recita la didascalia iniziale per questo dittico sull’amore interpretato dall’attrice, compagna, all’epoca, di Rossellini e reduce dal set di Roma città aperta.

Le due parti, La voce umana e Il miracolo, quest’ultimo su soggetto di Fellini ventottenne interprete con la Magnani e ispirato a Flor de santidad di Ramón María del Valle Inclán, sono segmenti girati in tempi diversi e montati in un unico film per esigenze di distribuzione.La superba interpretazione della Magnani e la complementarietà delle due declinazioni sul tema dell’amore danno solida unità al film.

La voce umana

Dalla pièce di Jean Cocteau, La Voix humaine, in scena al Théâtre de la Comédie-Française nel febbraio 1930, protagonista Berthe Bovy, è un lungo monologo telefonico di una donna disperata che parla all’amante, deciso a lasciarla dopo una relazione di cinque anni e in vista di un suo prossimo matrimonio.

Pietra miliare nella storia del cinema, nonostante le eccellenti prove successive di stars internazionali, da Ingrid Bergman a Simone Signoret, Gaby Morlay, Judith Anderson, Susanna York e Liv Ullman, quella della Magnani è rimasta insuperata.

La riscrittura cinematografica di Rossellini del testo teatrale fece dire ad un Cocteau entusiasta:

La Magnani m’a révélé la douleur. Lorsque nous tournions, avec Rossellini, La Voix humaine, elle était d’une nervosité folle, brisant tout ce qui tombait à sa portée, mais toujours magnifique de sincérité dans son rôle d’amoureuse éxplorée avec ses cheveux fous, ses yeux remplis de larmes et son nez qui coulait toujour. Rossellini, lui est un homme extraordinarie”.

Anatomia di un sentimento – così lo definì il regista – c’è un individuo afferrato di peso, messo sotto il microscopio, scrutato sino in fondo. C’è lo studio di un viso umano, la penetrazione nelle pieghe riposte di una fisionomia”.

Nato per uno spazio teatrale, nel testo di Cocteau avvertiamo una forte tensione centripeta. Rossellini introduce una dinamica diversa, le traiettorie emozionali della protagonista sono al centro di un incrocio continuo di forze opposte. Spinte centrifughe attraversano la scena, quindi, in rapida successione, close-up sul volto della donna riportano lo sguardo sul nodo centrale, l’immutabilità della situazione, e cresce l’insostenibile tensione del primo piano, l’ “immagine-affezione” della classificazione di Deleuze. La forza di affabulazione dell’opera teatrale si rinnova nei codici cinematografici attraverso sottili variazioni sintattiche, tagli di montaggio e dissolvenze frammentano il tempo, lo spazio sembra dilatarsi e restringersi continuamente intorno alla donna.

Lei esce dalla stanza, ritorna, sosta davanti agli specchi, si aggrappa alla porta nella speranza di udire il passo dell’uomo. La linea telefonica cade più volte e la durata angosciosa nell’attesa di un nuovo squillo crea successivi passaggi temporali. Tutto collabora ad un’impressione di mobilità che, ristretta nello spazio claustrofobico di una stanza da letto e di un bagno, alimenta proiezioni dell’immaginario, muove l’azione in una diegesi variegata, centrifuga e centripeta insieme, mobile come le onde emotive nella voce della donna e nella sua gestualità.

Infine, ed è l’aspetto più caratterizzante della rilettura rosselliniana, avvertiamo forte la presenza dell’uomo all’altro capo del filo. La telefonata-monologo di Cocteau diventa un dialogo in cui una sola voce è modulata in modo da rendere perfettamente conto della qualità dell’altra.Due mondi diversi convivono in quel momento disperato, oltre quella cornetta che la donna stringe spasmodicamente leggiamo le risposte dell’uomo, i suoi silenzi freddi, il disagio, le sue intenzioni convenzionalmente consolatorie.Il telefono è il terzo personaggio in scena, mezzo necessario e insieme del tutto inadeguato, ultima spiaggia di un discorso amoroso che sta naufragando via cavo.Barriera fra i due ex amanti e ultima possibilità di comunicazione fra loro, è in forte contrasto con la voce umana.

 

La linea cade, indifferente, e taglia una frase, un gemito. Un nuovo squillo alimenta una nuova, assurda speranza. La donna si aggrappa all’apparecchio nero, old style, come a un idolo, la performatività cinematografica e quella teatrale trovano comuni terreni di condivisione.

Medium che in Cocteau assume una carica simbolica inquietante ( “quando si mette giù il telefono è come se distruggessimo l’ultima nostra possibile avventura, noncuranti dei gemiti dell’altro da noi”), se non addirittura minacciosa ( “Ti ricordi di Yvonne che si domandava come mai la voce potesse passare attraverso il filo attorcigliato. Ho il filo intorno al collo. Ho la tua voce intorno al mio collo…”) il telefono qui si anima, diventa complice e nemico, oggetto da accarezzare identificato con l’amante, da odiare quando la comunicazione cade.

Una vicenda di ordinaria normalità, un rapporto che si conclude col suo strascico di dolore e di balbettamenti, di strazio infinito da una parte e di imbarazzata risposta e sostanziale indifferenza dall’altra, diventa così un evento linguistico di straordinaria significatività nell’ottica della teoria degli “atti linguistici”, secondo cui gli enunciati debbono essere sempre considerati come azioni. L’amore diventa parola e nella parola assume i contorni di un oggetto reale, tangibile, si carica di sanguigna pregnanza e di fragilità dolorosa nelle frasi che, ossessivamente, creano una rete di interazioni e di processi interrelati fra i due.

Quando la linea cadrà definitivamente sarà un urlo, il fonema impazzito, a formulare le ultime due parole: “Ti amo”.

Il miracolo

Nannina (Anna Magnani) pascola caprette e raccoglie fascine sulle pendici della penisola sorrentina. E’ sola e povera, poco cervello e senza fissa dimora. I suoi quattro stracci e un paio di gavette stazionano d’estate davanti alla chiesa, e deve perfino difenderli dagli assalti di un altro minus habens, uno sciancato che gira per il paese ridacchiando e chiedendo la carità.

Nella calura estiva si materializza come dal nulla un biondo, barbuto e bellissimo sconosciuto (un giovanissimo e quasi irriconoscibile Fellini). Ha un lungo mantello e si appoggia ad un alto bastone. Scambiarlo per San Giuseppe è questione di un attimo, la povera Nannina vive in un suo mondo fatto di favole e parabole, uno strano miscuglio di rassegnata accettazione di una vita miserabile e fantasie impastate di storie bibliche orecchiate in chiesa. San Giuseppe è il miracolo che si avvera nella sua mente bambina, Nannina ora è felice perché può chiedergli la grazia di portarla con sé in quel mondo così diverso dal suo.

Oh Gesù, Giuseppe e Maria!” esclama vedendolo, mentre il flauto pastorale rilascia note magnetiche nel meriggio di stoppie secche e sole a picco.“Io lo sapevo che saresti venuto, tu. Dio quanto sei bello!”

San Giuseppe / Fellini si gira verso di lei, è più in alto, la guarda, non dirà una parola per tutta la lunga sequenza successiva, una scelta straniante di silenzio che dà alla scena un sapore metafisico. Nannina è ormai presa dentro il suo sogno, parla, parla, beve il vino che San Giuseppe dall’aria furba continua a darle e si sdraia a terra, fa caldo, suda, e parla felice di quel miracolo che le sta accadendo.

Il miracolo vero sarà il bambino che partorirà da sola nove mesi dopo, fuori da quel convento abbandonato dove arriverà con i suoi quattro stracci e le doglie che la contraggono sempre più fitte.

Il paese l’ha portata in processione con lanci di ortaggi e scodella in testa come aureola, lei è fuggita, la segue una capretta belante, sale lenta, a fatica, la scaletta che si arrampica sulla costiera. Rossellini la segue in una spettacolare climax insieme tragica e tenera, lascia che Nannina senta dall’alto le voci che, giù in paese, cantano inni alla Vergine, quella vera, in processione.

La Magnani è insuperabile nel dire tutto quello che c’è da dire anche solo con uno sguardo breve, un leggerissimo movimento del capo.La sequenza finale è una delle più alte prove che il cinema abbia prodotto nella sua storia ormai secolare.

Due immensi maestri del cinema e un’attrice unica, il miracolo è questo.

 

L’amore

Italia, 1948 durata 78’

regia di Roberto Rossellini

con Anna Magnani e Federico Fellini

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