Ecco l’impero dei sensi di Oshima Nagisa

Oshima gira il film nel ’76 traendo da un fatto di cronaca del ’36 di una donna che tagliò il pene all’amante. La voice over in chiusura ci riporta alla realtà e ci fornisce dati.

Noburo Tanaka aveva girato due anni prima Abesada – l’abisso dei sensi, Bertolucci aveva fatto uscire nel ’72 Ultimo tango a Parigi e il tema dell’amour fou aveva investito l’occidente con conseguenze prevedibili sul piano censorio.

La liberazione dai tabù sessuali era ancora di là da venire, nonostante i proclami sessantottini, anzi quelli furono anni più che mai inclini ad involuzioni moralizzatrici. 

Bisogna tornare molto indietro per trovare nell’espressione artistica momenti di autentica libertà e riflessioni d’avanguardia sul tema della rappresentazione, pensiamo ad Henry Miller, che in L’oscenità in letteratura afferma: “E’ da due inesauribili fonti galliche, Rabelais ed Élie Faure, che ho tratto maggiormente il coraggio, l’ispirazione e il senso della libertà. In nessun punto delle opere di questi maestri ho mai trovato nulla che scusasse o giustificasse la limitazione della libertà d’espressione nel campo dell’arte.”

Ma è soprattutto nell’opera di George Bataille la teorizzazione dell’uomo come “separazione dalla totalità della natura”, e dunque il riconoscimento della necessità di recupero di un’unità che passi attraverso la trasgressione.

L’ordine stabilito dalla società è funzionale all’accunulo del capitale, trasgredirlo nell’eccesso di piacere e dolore assume le forme di un erotismo tragico che è “pratica della gioia dinanzi alla morte”.

“La totalità divina – continua Batailleè legata alla trasgressione della legge che fonda l’ordine degli esseri frammentari. Gli esseri frammentari che sono gli uomini si sforzano di perseverare nella frammentarietà. Ma la morte, o almeno la contemplazione di essa, li riconduce all’esperienza della totalità. L’essere nella sua interezza è quindi accessibile all’uomo solo nella trasgressione dei suoi limiti, oppure nella rappresentazione drammatica di quegli eccessi, cioè nella letteratura, nel sacrificio cruento, nelle immagini dotate del potere di sconvolgere: nel concetto di erotismo tragico questi stati emozionali così intensi trovano la loro unificazione.

Una lettura del film di Oshima non può prescindere da queste considerazioni, pur tenendo conto del modo più libero rispetto ai nostri schemi occidentali con cui l’Oriente ha sempre trattato il tema erotico. Si tratta dunque di reperire matrici unificanti all’interno di una problematica universale, che travalica il tempo e lo spazio.

Si può allora pensare anche al tema dionisiaco, visto come “lo spirito selvaggio dell’antitesi e del paradosso, dell’immediata presenza e della assoluta e remota distanza, della felicità e dell’orrore, dell’infinita vitalità e della più cruenta distruzione” (Walter Otto).

Cosa simboleggia Dioniso e in che modo possiamo rapportarlo al discorso sull’amore come “appropriazione” che passa attraverso il bisogno di “mangiare” l’altro? (ricordiamo a questo punto anche il fondamentale Mangiare Dio di Ian Kott).

Elemento centrale del culto di Dioniso è l’orghia che, afferma il Dodds, “non ha nulla a che vedere con l’idea moderna di orgia, poiché si tratta di un atto di devozione che per oggetto ha l’esperienza di comunione con Dio che trasforma l’essere umano”.

Cuore dell’esperienza orgiastica è l’omofaghìa, il divorare carne animale viva dopo aver praticato lo sparagmòs, smembramento rituale a mani nude, o con l’aiuto del tirso, di animali selvatici ancora vivi.

Oshima si pone su questo crinale con un film cruento e liberatorio, lento e ripetitivo nella ritualità del gesto amoroso.

L’universo di Abe Sada e Kichi-san si sviluppa in una camera chiusa e si restringe in una progressione erotica sempre più devastante, l’eros li domina, li monopolizza in un’estasi ossessivo-compulsiva che non può che culminare nella morte, di lui, ma in fondo anche di lei, mantide che divora l’amante e si appropria del suo feticcio (il sesso di lui) con una cerimonia di evirazione celebrata con la necessaria compostezza di chi compie un rito, dopo il quale riposerà appagata al suo fianco, splendida nel lucido kimono grigio-argento. in un quadro di calda luminosità, equilibrio di linee, volumi e colori.

I due amanti si isolano dal mondo in un’esperienza che non può coinvolgere altri se non inglobandoli (il rapporto sessuale con altre donne che attraversano quello spazio e che vengono come risucchiate dall’energia che da lì si sprigiona) “imperium” è parola che non lascia vie di fuga, è dominio totale e dunque l’esperienza dei sensi deve procedere fino in fondo.

Resta la domanda di base: cosa vuol comunicare Oshima con Ecco l’impero dei sensi?

Ci sollecita ad una nuova morale presentandoci il sesso come esasperazione della solitudine dell’uomo? Vuol denunciarne l’illusoria convinzione di controllare la persona desiderata? Intende usarlo esclusivamente nella sua valenza simbolica, rappresentandolo come espressione dell’eterno scontro tra le pulsioni di vita e di morte?

Nell’opera di Oshima vanno anche reperite chiavi di lettura socio-politiche (forse non è un caso che il 1936, invasione della Manciuria da parte del Giappone, sia data ricorrente anche in Furyo come momento significativo per la formazione del comandante Yonoi) ma qui la realtà storica sembra fagocitata dall’ individualismo, esasperato dalla ricerca di un piacere che supera di volta in volta i propri confini.

Gli esterni, il mendicante, il vecchio preside con cui Abe si prostituisce, perfino la presenza dell’elemento infantile, ruotano intorno all’unico centro, la coppia e il loro congiungersi, che l’uso esasperato del primo e primissimo piano impongono continuamente.

Ricorda Fosco Maraini: “ In Oriente il nudo è ammesso nella vita ma non nell’arte, ove vigono criteri estetici completamente diversi dall’Occidente, ove la stessa morte colpisce senza terrorizzare”.

Oshima compie il passo successivo, rappresentandolo nell’arte con forme algide, di estrema eleganza, che nulla concedono al voyeurismo.L’esperienza rappresentata percorre il cammino estatico della possessione, che giunge fino alla penetrazione del dio nel corpo dell’uomo.

Rotta la sua individualità, il posseduto da Dioniso ‘vede’ quello che i non iniziati non vedono” osserva Giorgio Colli (La sapienza greca) – cioè vede Dioniso stesso, che è il suo oggetto estatico, ma non lo vede come esterno, non riproduce la triade oggetto visto–vedere– soggetto vedente: l’iniziato è Dioniso e quindi vede sè stesso.”

Lo sparagmòs è “morire in vita”, perdita del sè psicologico, ma nello stesso momento è riemergere in Dioniso vivente (anche Dioniso subì lo sparagmòs da parte dei Titani e rinasce ogni anno con il rigenerarsi della natura).

L’atto delle Menadi esprime il desiderio di vivere dopo la morte, smembrare e mangiare le carni è un passaggio fondamentale perché questo avvenga.

Ecco l’impero dei sensi

titolo originale: Ai no Corrida

Giappone/Francia 1976 durata 120’

regia di Oshima Nagisa

con Fuji Tatsuya, Matsuda Eiko, Tonoyama Taiji, Nakajima Aoi, Meika Seri

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