Oltre il giardino di Hal Ashby

Protagonista del romanzo di Jerzy Kozinski, che nel ’79 curò la sceneggiatura del film, Chance Giardiniere (un magistrale Peter Sellers) è un impeccabile cinquantenne che si muove compassato, si veste come un lord inglese ed ha un perfetto aplomb da high class, con bombetta e ombrello sempre a portata di mano.

Per gradi di avvicinamento successivi, però, capiamo trattarsi di un minus habens.

Si occupa del giardino nella casa del benefattore che l’ha accolto bambino e da dove non si è mai mosso.Tutta la sua esperienza del mondo reale passa attraverso la televisione, da cui raccoglie messaggi elementari e apprende una gestualità che applica poi meticolosamente alle varie situazioni che lo coinvolgono. Change non ha un passato, il mondo effimero che conosce è filtrato dallo schermo, con il telecomando pensa di muoversi anche nella realtà e che basti cambiare canale se lo scenario non è di suo gradimento.

Vive nella grande casa del benefattore insieme alla governante Louise, donna di colore, persona pratica, affettuosa e lucidamente critica (di lui dirà, vedendolo intervistato alla tv in seguito all’imprevedibile notorietà raggiunta: ”Di sicuro c’è una cosa, che l’America è dei bianchi, che Dio è bianco. Ho cresciuto quel ragazzo da quando si faceva la piscia addosso, era un mezzo deficiente, al posto del cervello aveva un pugno di fichi secchi”).

La morte del padrone lo proietta nel mondo esterno dove, in teoria, dovrebbe mettersi in gioco capendone e accettandone regole mai apprese nel guscio ovattato della casa e del giardino.

In realtà accadrà il contrario, saranno gli altri a misurarsi con lui, un essere immobile nella sua serena fissità, sempre sorridente o appena perplesso quando qualcuno o qualcosa sembra spiazzarlo. Ma è solo un attimo, subito la sua tranquilla e leggera immersione nel reale riprende e sono gli altri a chiedersi come mai non capiscono niente e lui invece sì.

A Chance infatti crede il Presidente che fa tesoro della sua analisi sulla situazione economica, di una banalità disarmante, tratta dall’esperienza di giardinaggio che è l’unica ad avere (… fin quando le radici non sono recise, va tutto bene… in un giardino c’è una stagione per la crescita, prima vengono la primavera e l’estate e poi abbiamo l’autunno e l’inverno, ma poi ritorna la primavera e l’estate).

A lui si affida Ben, l’industriale, che spiega: “Io credo che quello che il nostro giovane intuitivo amico vuol dire è che noi accettiamo le inevitabili stagioni della natura ma siamo sconvolti dalle stagioni della nostra economia”.

Crede e punta le sue carte su Chance tutto l’establishment di politici, finanzieri, teste quadrate del giornalismo, un milieu di potenti a cui il nostro dice con assoluta naturalezza di non saper né leggere né scrivere, ma non serve, anzi l’affermazione viene interpretata come segno di grande saggezza e supremo distacco, accorto e studiato autocontrollo, promessa di grande avvenire.

Tutto di Chance, la sua non-storia, il suo non-dire, il suo non-reagire là dove chiunque si aspetterebbe una reazione, collabora a fare di lui un assoluto non sense in puro stile magrittiano.

L’unico a capire la verità del personaggio e, in un certo senso, a decodificarlo è un magnifico Melvin Douglas/ Ben, che, ormai morente, coglie la sostanza dell’essere di Chance quando gli dice:

Tu hai una grande virtù, tu non stai a ricamare con le parole per nascondertici dietro, tu dici pane al pane….”

Ci si chiede come sia possibile il ribaltamento di ruoli a cui assistiamo e quanta verità ci sia nel gioco surreale su cui è costruito il film a cui il meccanismo del comico fa da detonatore. Chance è un Candide che attraversa con l’ingenuità disarmante di chi ridà il vero nome alle cose tutto quello che si trova davanti. La sua è una verginità che spiazza il mondo che ne resta soggiogato. Rivelatrice del paradosso solo apparente del film la memorabile scena finale, sull’acqua di un laghetto che Chance attraversa senza chiedersi come fare, gli basta mettere un piede davanti all’altro.

A metà strada, guardando in platea e immergendo l’ombrello nell’acqua, sembra dire: “Cosa credete? E’ tutto vero”.

Compunto, compassato come un perfetto gentleman, lo sguardo di Chance si accende di minime pulsazioni solo quando s’impadronisce di qualcosa che sembri un telecomando.

Manichino cloroformizzato a cui solo un grande attore come Peter Sellers poteva assegnare con tale eleganza un compito che è la negazione dell’attorialità, esprimere il vuoto, Chance il giardiniere ha aperto la strada ad un cinema di denuncia che continua, a quaranta anni di distanza, a trovare forte esca nell’attualità.

L’accompagnamento sonoro con vibrazioni alla Debussy, su cui a tratti si espande l’arrangiamento dell’Also sprach Zarathustra di Eumir Deodato, contrappuntano questa arguta e surreale satira della società americana e dei suoi governanti.

La metafora del giardino ben governato che Shakespeare coniò nel Riccardo III come simbolo di uno Stato ben funzionante è solo un lontano ricordo, o forse un’utopia, e non solo per gli americani.

Oltre il giardino, being there, non c’è nulla, ma è un nulla molto inquietante.

Oltre il giardino

titolo originale: Being There

USA, 1979, durata 128’

regia di Hal Ashby

con Peter Sellers, Shirley MacLaine, Melvin Douglas, Jack Warden

 

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