Rebecca la prima moglie di Alfred Hitchcock

La delicata, bionda e giovane Joan Fontaine si innamora perdutamente di Maxim de Winter (e, pare, anche lui di lei), gentiluomo assorto, misterioso e bello come solo sir Laurence Olivier poteva essere all’epoca, quella volta che a Montecarlo lo incontra per caso, mentre è lì come dama di compagnia a pagamento di una ricca signora americana.

Ne diventa la seconda moglie e tornati in Cornovaglia, nel castello di Manderley, “segreto e silenzioso” scrive Daphne Du Maurier, su cui passa una nube come “una mano scura davanti a un volto“, inizia l’ossessione.

L’immagine di Rebecca, prima moglie defunta per incidente in circostanze misteriose, è incombente ma non appare mai in qualche flashback, si sa che era molto bella e aveva i capelli lunghi e scuri, ma tocca allo spettatore costruirsene un’immagine.

C’è solo il suo nome, così incisivo, duro nei suoni come una staffilata, e tutto  parla di lei, a partire dalla signora Danvers, la governante, una sublime Judith Anderson, a ragione considerata da molti tra le migliori “vilainesses” dell’era del cinema, di quella bruttezza che non è deformità ma composizione in forma fisica di pensieri malati.

La sua ferocia è ineguagliabile ed è pari alla sua devozione per Rebecca, sentimento che rasenta il fanatismo e che ha fatto ipotizzare scenari di passione inconfessabili negli anni ’40 e certo sublimati in ossessione quasi feticistica per la sua memoria.La seconda moglie, invece, non avrà mai un nome, solo questo ruolo romantico e disperato.

La vicenda si dipana con intreccio tripartito: una semplice e tenera storia d’amore all’inizio (se non stessimo vedendo  Hitchcock penseremmo quasi a Frank Capra), l’apice nel secondo atto fatto di gradazione isterica e claustrofobica, a cui collabora la musica di Franz Waxman e della Czecho-Slovak Radio Symphony Orchestra di Bratislava, e comprende il duello con il fantasma mentale di nome Rebecca e la rivelazione della verità , infine l’indagine poliziesca nella terza sezione con la conclusione.

Dal romanzo del ‘38 di Daphne du Maurier, Rebecca segnò l’esordio a Hollywood del regista e gli valse 9 nomination e 2 premi Oscar (miglior film e fotografia), eppure su Rebecca risponderà in seguito a Truffaut, che gli chiedeva se ne fosse soddisfatto: “Non è un “film di Hitchcock”. E’ una specie di racconto e la stessa storia è del XIX secolo. Era una storia di vecchio tipo, piuttosto demodè. In quel periodo c’erano molte donne scrittrici: non è che sia contrario a questo, ma “Rebecca” è una storia che manca di umorismo”.

Riconosciamo il grande Hitch nella battuta e capiamo perché, non potendo cambiare lo script nè caratterizzarlo con i suoi consueti tocchi di humor, si divertì a distribuire piccoli elementi di tensione in più in un intreccio di suspense già parecchio esasperante, che trasforma il melodramma gotico della Du Maurier in un film inquietante e ossessivo come pochi, uno dei più belli e meno conosciuti dal grande pubblico, che nulla ha da invidiare ai capolavori successivi.

Angolazioni di ripresa, editing, musica, zoomate improvvise sul volto dei protagonisti, soggettive di immagini distorte, il repertorio hitchcockiano c’è tutto, con un valore aggiunto.

Prendere la storia di Du Maurier gli ha permesso di mescolare stili e generi e il risultato è eccellente, se dobbiamo prestar fede anche a quello che dice Truffaut:I suoi film sono belli e atemporali. Se oggi si vede un suo film girato nel 1940, non sembra un’opera datata. Sembrerà un film dalla forma pura e concisa. Era pungente quando uscì e lo è tuttora”.

L’elemento gotico viene qui piegato a componente di linguaggio, il castello è la casa stregata che appare dalla macchina mentre il tergicristallo scandisce il ritmo della paura, alberi enormi lo sovrastano come una cappa oscura e la figura esile di Joan Fontaine sembra farsi sempre più piccola davanti alle vetrate enormi e agli spazi in cui si muove rigida, come una bambola spaurita.

Adattamento abbastanza fedele del romanzo, Hitchcock fa un paio di modifiche nelle modalità della morte di Rebecca e nel finale. Il codice Hays* allora dettava regole molto dure a Hollywood, sospettare Max dell’omicidio della moglie avrebbe richiesto uno sviluppo della vicenda verso le conseguenze adeguate e l’intreccio ne sarebbe stato snaturato, per cui si optò per l’incidente.

Quanto al finale, arriva solo quando la realizzazione del concetto di suspense è totale “… gli spettatori devono subire una grande emozione vedendo il film. Da me si aspettano che giunga l’angoscia … E’ molto, molto importante ottenere una vera suspense. Bisogna che nello spirito dello spettatore non resti assolutamente più niente, salvo la suspense”.

E regolarmente questo avviene, e alla grande, ma avviene anche altro con Hitch, e ce lo fa notare Godard: “Abbiamo dimenticato perché Joan Fontaine si sporge sul filo della scogliera, abbiamo dimenticato su cosa Montgomery Clift mantiene un eterno silenzio e perché Janet Leigh si ferma al Bates motel e perché Teresa Wright è sempre e ancora innamorata di zio Charlie, di cosa Henry Fonda non è del tutto colpevole e perché esattamente il governo americano ingaggia Ingrid Bergman, ma ci ricordiamo di una borsetta, ma ci ricordiamo di un autobotte nel deserto, ma ci ricordiamo di un bicchiere di latte delle pale di un mulino, di una spazzola per capelli, ma ci ricordiamo di una fila di bottiglie, di un paio d’occhiali, di uno spartito musicale, di un mazzo di chiavi, perché con essi e attraverso essi Alfred Hitchcock riuscì là dove fallirono Alessandro, Giulio Cesare e Napoleone: prendere il controllo dell’universo”.

*Dal nome del suo creatore Will H. Hays, il Codice Hays è il Production Code, nome con cui per molti anni furono  indicate le linee guida per la produzione del cinema negli USA. Principio guida del “Production Code” fu il concetto di “moralmente accettabile” nella produzione di film.

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Rebecca la prima moglie

titolo originale:Rebecca

USA, 1940, durata 124’

regia di Alfred Hitchcock

con Laurence Olivier, Joan Fontaine, Judith Anderson , George Sanders

 

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