La vita è meravigliosa di Frank Capra

 It’s a Wonderful Life è un’affermazione apodittica, dice cioè allo spettatore qualcosa su cui si presuppone nessuno possa eccepire.

Lo diceva nel ’46 un Frank Capra molto convinto e lo ribadirà nell’ultima intervista dell’’85  sul prato della sua bella villa.

Un uomo, un film” era il suo grido di cineasta vincente e alla distanza lo fu, nonostante gli alti e bassi della sua carriera. Il regista come unico responsabile del suo film fu il suo credo.

Negli Stati Uniti del 1946 la storia di George Bayley, cittadino di Bedford, un uomo che rinuncia al suo sogno (“scrollarsi dalle scarpe la polvere di questa piccola cittadina e girare il mondo) per senso del dovere, responsabilità e amore, era quanto di più edificante potesse essere creato dopo i disastri della guerra.

L’americano medio si rispecchiò in lui, ricominciò a credere in sè stesso, vide nel dinoccolato Jimmy Stewart il campione di un cinema consolatorio (l’altro “buono” per antonomasia era Gary Cooper) l’attore non attore, nè bello né brutto, indubbiamente non fascinoso come i divi che l’avevano preceduto, insomma il prototipo dell’uomo della strada, quello che Capra pretendeva fossero i suoi attori, a cui riscriveva seduta stante la parte se capiva che l’avevano “provata” in precedenza.

Mary/Donna Reed, aveva la serena faccia acqua e sapone della casalinga di quel tempo, lontana anni luce dalle Desperates Housewifes.

Appena un po’ più trasgressiva la biondona Violet/Gloria Grahame, ma in fondo brava ragazza, anche se portata a scegliere partiti più allettanti dello spiantato George. Del resto nessun problema, il nostro George/ Jimmy Stewart aveva sempre amato Mary, fin da bambino.

Lionel Barrymore, lo spietato e disonesto palazzinaro Henry Potter era il cattivo che non l’avrebbe mai avuta vinta sulla bontà che contraddistingueva la maggioranza del genere umano (almeno stando al finale davvero convincente!).

E chi non si sarebbe convinto di fronte a quell’unisono di solidarietà che salva George dalla bancarotta e la città dalle grinfie di chi l’avrebbe trasformata in una specie di Las Vegas, città del vizio, frastuono e insegne luminose che appare a George nell’incubo che Clarence, suo angelo protettore, gli scatena addosso per dimostrargli quanto la vita sia meravigliosa e dunque perché morire?

Sì, perché in realtà George voleva uccidersi.

Ma andiamo con ordine:

George si sposa con l’amata Mary, rinuncia a fare il globe-trotter, rinuncia a costruire ponti, palazzi e chiese (come Capra, laurea in ingegneria frustrata dalla Grande Crisi) e apre un’agenzia di credito con zio Billy, uno da cui non compreremmo una macchina usata.

Ma non basta, George aiuta i concittadini con i soldi del suo viaggio di nozze, mette al mondo non uno o due ma ben quattro educatissimi marmocchi, ripristina con tanto sudore e fatica un’orrida catapecchia che avrà sempre spifferi e il pomello delle scale che si stacca, non va in guerra perché sordo ad un orecchio per aver salvato, da piccolo, il fratello caduto in acque gelate (fratello che invece in guerra ci va e diventa una specie di eroe nazionale), saluta gli amici che partono per vacanze esotiche e sfoga l’incipiente senso di frustrazione con un bel calcio alla sua macchina.

Infine, come se tutta questa bontà non bastasse, rifiuta con grande dignità di scendere a compromessi con la sua coscienza accettando l’offerta del disonesto Potter che l’avrebbe reso ricco. Niente da fare, lui no, povero ma onesto, si alza con fierezza dalla sedia troppo bassa su cui Potter l’ha fatto sedere di fronte al suo trono, e tutto questo fino al grande crac, quando il destino cinico e baro si accanirà contro di lui, giusto e innocente.

Ma ecco che sulla spalletta del ponte da cui sta per buttarsi giù lo salva Clarence, un angelo senza ali in missione sulla terra per  guadagnarsele in una impresa degna di tanto onore.

Salvare George sembra una carta vincente al bravo Clarence, un arguto vecchietto (la sua intelligenza non è superiore a quella di un coniglio, ma la sua fede è pura, confabulano su di lui in Paradiso) che farà vivere a George un’esperienza surreale: muoversi per la città come se non fosse mai nato e verificare quanto male sarebbe stato non esserci.

Tirate le somme, si conclude che è meglio nascere, del bene lo si fa comunque in giro e dunque non ci lamentiamo, siamo indispensabili.

A questo punto del film manca solo il lieto fine che, immancabile, arriva, e proprio la notte di Natale, mentre fuori nevica, meravigliosamente nevica.

Di Clarence, ormai certamente promosso angelo con le ali, a George restano “Le avventure di Tom Sawyer”, il libro che l’angelo portava con sè, con una dedica:

Dear George, remember no man is a failure who has friends.Thanks for the wings! Love Clarence”.

C’è un regalo più bello che ricevere a Natale un libro di Mark Twain?

Alle favole si perdona tutto, si sa, La vita è meravigliosa è una bella favola e, come in tutte le favole, dietro c’è l’uomo vero e dunque i cattivi non vengono puniti, i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Merito di Frank Capra è riuscire a farci credere con tanta ironia, amabile umorismo e un po’ di saggezza antica non che la vita sia meravigliosa tout court, ma che lo diventa per chi ce la mette tutta.

E questo lo possiamo condividere.

Dopotutto, anche lui ne ha fatta di strada da quel piccolo laboratorio in cui imparò a montare pezzi di film amatoriali per una paga miserabile.

Ma forse allora il denaro non era necessariamente il centro del mondo.

La vita è meravigliosa

titolo originale: It’s a Wonderful Life

USA, 1946, b/n durata 129’

regia di Frank Capra

con James Stewart, Donna Reed, Henry Travers, Lionel Barrymore,Thomas Mitchell, Ward Bond,Gloria Grahame

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