Jaurès

“Un film fragile, un dispositivo minimale” lo definisce il regista, fatto per vedere “…se esiste una relazione tra la tenerezza e una specie di generosità sociale”.

Sotto i ponti di Jaurès, stazione metro di Parigi che prima del ’14 si chiamava Allemagne, trovano rifugio profughi afghani.

Inedita convergenza di destini, beffa e paradosso, stravaganza della modernità, alterazione malata delle sue viscere se il grande fondatore de L’Humanité, foglio di teoria e prassi del socialismo liberale e democratico dei primi del Novecento, ora può fornire solo arcate in ferro e cemento contro la pioggia e il sole.

C’è chi guarda da una finestra e filma. E’ Vincent Dieutre:

Jaurès non è un film premeditato. Ho ripreso le scene istintivamente, come per lasciare una traccia della mia storia d’amore con Simon. Nell’ultimo anno della nostra relazione, ho filmato quello che vedevamo dalla finestra del suo appartamento, dove passavamo la notte. Se qualcuno entra nella mia vita, automaticamente entra a far parte dei miei film. Ma Simon, il cui nome e la cui storia ho cambiato, non ha mai voluto apparire nei miei progetti. Filmare dalla sua finestra mi ha comunque permesso di intercettare alcune tracce della sua presenza. Similmente, l’idea di un dialogo con la mia amica Eva Truffaut, nel quale cerchiamo la verità che segue dalle immagini riprese, mi sembrava molto più pertinente di un testo narrato in prima persona.”

La ripresa è durata un anno, dalla sera al mattino presto. Ogni mattina Vincent doveva lasciare l’appartamento.

Teddy Award – premio della giuria alla Berlinale 2012, Jaurès è una camera digitale fissa sul mondo di fronte e sottostante; una finestra non sul cortile, quello spazio familiare del tempo che fu, non alieno anche se, in alcuni casi, inquietante.

In un mondo senza più cortili si guardano le finestre di fronte, che i flussi luminosi dei diodi LED colorano di rosso, giallo e verde. Se lo sguardo scende in basso, sul Canale Saint-Martin, sotto il ponte Lafayette che i treni attraversano veloci, vede uomini e oggetti sparsi senza valore, qualche tendina canadese, tentativi di sopravvivenza a oltranza.

Afghani profughi che, prima o poi, spariranno in qualche operazione di bonifica di polizia.Per ora, e per alcuni mesi, restano dentro l’obiettivo di Dieutre.

Un film singolare, un esperimento felice di doppia focalizzazione, esterna e interna. Da un cono d’ombra affiorano due voci basse (la sua e quella di Eva Truffaut) e rapidi tagli danno luce ai volti davanti allo schermo su cui guardano le riprese, mentre lei domanda e lui spiega. Lo spazio urbano fuori della finestra si fa largo, rumoroso e silenzioso insieme, assordante per i convogli che sfrecciano sul ponte, insonorizzato dalla distanza per i gruppi di profughi che si muovono e parlano fra loro.

 “Formalmente e narrativamente eccezionale, questo film esplora l’impulso umano teso alla riconciliazione dell’individuo e delle sue emozioni con la politica. La giuria riconosce un’altissima qualità filmica di profondità e bellezza”

Così la motivazione del premio.

Tenere insieme finzione e documento, conciliare i livelli della rappresentazione intrecciando alla biografia lo sguardo sul sociale e il politico, e dare a tutto questo la parvenza scorrevole di un sommesso colloquio d’amore. Poche parole e immagini al minimo, solo quelle di uno spazio esterno filtrato dall’occhio che guarda, mentre rievoca un amore segreto e profondo, ora concluso, ma quante tracce nella memoria e nelle rare parole. Simon è una presenza/assenza costante, definita nei tratti fondamentali, nella sua identità di uomo sposato, attivista politico, sindacalista impegnato a tutto campo nel sociale, alla fine amareggiato e soprattutto incapace di conciliare le sue contraddizioni.

Ma Dieutre ne parla con tenerezza e rispetto, lo scrosciare della doccia, un fraseggio al pianoforte che Simon sta suonando non visto, qualche ricordo della sua infanzia raccontata all’amante, confondono i confini tra documentario e fiction autobiografica.

Il rimando fra realtà esterna e realtà della memoria è continuo, quei profughi aiutati di giorno sono gli stessi ripresi di notte dalla finestra. Fino alla fine delle due storie.

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Jaurès

Francia, 2012 durata 83’

di Vincent Dieutre

con Eva Truffaut, Vincent Dieutre

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