La sposa turca di Fatih Akin

Gegen die wand, contro il muro, e il muro è quello contro cui si schianta la macchina di Cahit (Birol Unuel).

Se la caverà con un collare, qualche ammaccatura che quasi non si nota in uno chassis già abbastanza malandato che dimostra più dei 40 che ha, e un ricovero temporaneo in un reparto dove lo psichiatra di turno proverà a capire perché voleva uccidersi. Finirà con il consiglio di Cahit al medico di andare piuttosto lui in analisi.

Cahit non voleva uccidersi, in realtà, ha solo lasciato che la macchina andasse e non ha frenato, perché farlo? Déraciné senza approdi né paternità colte, nulla che faccia di lui un’icona alla James Dean o un maudit alla Bukowski, Cahit è solo un povero diavolo senza qualità, se non fosse per una speciale forma di tenerezza che emana, di fragilità insospettabile dietro quelle rughe e quel cipiglio.

Lei sì, invece, voleva uccidersi, Sibel, 20 anni e tanta voglia di vivere fuori dalle secche di una famiglia turca trapiantata in Germania, con padre che sembra il bisnonno di Bin Laden e il fratello maggiore integralista fino al midollo, sempre pronto ad inseguirla per strada e fracassarla di botte (scena ricorrente in tanto cinema da Gitai a Makhmalbaf).

Punto di convergenza fra i due è il suggerimento di Cahit a Sibel: le vene si tagliano per lungo, non come hai fatto tu, non serve a niente.

Emigranti di seconda, terza, forse quarta generazione, depressioni in corso, radici alle spalle che pesano e continuano a richiamare, ci regalano il ritorno a Istanbul di entrambi (ma è una Istanbul più che mai triste, in alcuni momenti anche paurosa nei vicoli della città vecchia) quando lui, dopo il matrimonio farsa che lei lo ha convinto a fare per liberarsi dai suoi, la cercherà proprio lì.

Sono passati anni e un po’ di galera, in quel macello delle loro vite, che sembrano fatte apposta per incasinarsi ogni volta di più, tra bevute, sniffate e sesso senza senso, è arrivato a sorpresa l’amore, bello, grande e disperato, come conviene in questi casi.

Ora che i demoni hanno abbandonato Cahit, e tornare fra quei colori, quelle luci, in quel mare sarebbe un riprendere a vivere perché il matrimonio era una farsa, ma l’amore no, ora lei non può più seguirlo, una figlia, un marito, la vita che passa e va e sotto lo stesso ponte non scorre mai la stessa acqua.

L’ultima immagine di Cahit sfuma riflessa dal finestrino dell’autobus che lo riporta al suo paese, in una zona interna della Turchia.

Fatih Akin mescola commedia e dramma, aumenta gradualmente la tensione e porta alla catarsi.

Riesce bene a farlo, gli interpreti sono perfettamente integrati e complementari l’uno all’altra, c’è il modo tipico di Akin di pensare ad un mondo da un’altra sponda, far sentire disagio e appartenenza, volontà di integrazione e marginalità, difficile incontro di culture ma possibile, purchè si affidi anche alla musica il compito di conciliarle.

Il coro commenta sulla riva del Bosforo, mentre il tramonto indora i minareti della moschea di Solimano alle sue spalle.

La sposa turca

titolo originale: Gegen die wand

Germania, 2003, durata 123’

regia di Fatih Akin

con Birol Unuel, Sibel Kekilli, Catrin Striebeck, Meltem Cumbul, Guner Cem Akin, Guner Aysel Iscan

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