L’humanité di Bruno Dumont

Un profilo ondulato di campi verdi sull’asse dell’orizzonte, nel quadrante a sinistra due alberi in controluce sul pastello uniforme del cielo.Lungo il crinale, in campo lunghissimo, una figurina; corre, il calpestio si sente vicino, il respiro è affannoso. Attraversa da sinistra a destra, esce.

Stacco.

Un uomo entra correndo da destra, è sconvolto, piano intero. Barcolla, linee sghembe dividono lo spazio fra zolle melmose e cielo plumbeo. L’uomo cade, rombo di tempesta lontana, l’occhio è sbarrato, la bocca incollata alle zolle umide.Una suoneria, il radiotelefono dalla macchina della Polizia sulla strada più in là.

Stacco.

L’uomo è in macchina, primo piano, “arrivo” risponde con un soffio al microfono. Dettaglio sul dito che preme il tasto del lettoreCD, una cascata di note al clavicembalo, Les tendres sentiments da Pièces de clavecin di Pancrace Royer.

L’uomo appoggia la testa allo schienale, è impietrito.

Un minuto, poco più, poi la musica sparirà del tutto per tornare solo sui titoli di coda.

Bisogna che le immagini-tempo, di deleuziana memoria, colmino lo iato fra senso e non senso perché, come in musica, “ inventare non significa dare vita ad un oggetto, ma riconoscere là dove esso si trovi, non imitare la natura come essa è, ma come essa può essere e la si può concepire nello spirito”.

Quello che il pensiero musicale teorizzò nei secoli della sua rinascita barocca trova sicura corrispondenza in un cinema in cui le immagini creano il tempo, le loro combinazioni il significato, ambienti, personaggi e accadimenti si disperdono in spazi qualsiasi e in segmenti inespressivi fino a quando il tempo soggettivo, coscienziale, non se ne appropria.

Niente spirito, niente epigrammi, niente pensieri leggiadri, tutte cose troppo lontane dalla natura schietta … solo il grido animale della passione può dettarci la linea che fa per noi” proclamava nel ‘700 l’abate Batteux.

La sequenza iniziale pone in pochi minuti i termini dell’evento. L’omicidio, un cadavere in primo piano nell’erba alta, tracce di sangue sul sesso femminile, infantile, lacerato, formiche percorrono la superficie bianca delle gambe. Nessuna costrizione narrativa, nessuna scena del crimine con curiosi, poliziotti e sirene spiegate, nessun realismo raccapricciante. L’immagine ricalca il Marcel Duchamp di Dati: 1. La cascata d’acqua 2. Il gas illuminante.

Stesso posizionamento del corpo, altra significatività dell’immagine, lì paesaggio carico di vitalistica energia riproduttiva, qui icona di una violenza che espone l’umanità alla contemplazione del male, e, soprattutto, alla presa d’atto di una potenzialità inesauribile di compierlo.

L’ humanité (1999) è il secondo lungometraggio di Dumont dopo La vie de Jésus (1997) e suo seguito ideale. Il trittico si chiuderà con Flanders nel 2006. Pharaone De Winter, il poliziotto dagli occhi sbarrati sul male de L’ humanité, Kader, il ragazzo arabo innamorato e pestato a morte de La vie de Jésus, André Demester, il contadino/guerrigliero che guarda in silenzio i disastri del mondo in Flanders: tre piccolissimi campionari di umanità di fronte allo scacco finale.

Chi corre senza meta, chi si ferma impietrito, chi sbarra gli occhi inebetiti, tutti guardano muti quei prati ondulati, quegli alberi pieni di foglie e il confine lontano, fra le brume delle Fiandre. C’è un’indagine in corso su un brutale assassinio con stupro di una bambina di undici anni. Dirige le ricerche, in tandem con il capo della polizia (Ghislain Ghesquère), Pharaone de Winter (Emmanuel Schotté), l‘uomo che correva sulla collina. 

Un nome potente, che gli sta addosso come un macigno. E’ quello del nonno, pittore del XIX secolo di discreta fama a cui è dedicata la strada di Bailleul, dove il poliziotto abita con la madre, strada di pochi passanti e poche auto, facciate linde di periferia, dalle porte si affaccia di rado qualche vicino.

Domino (Severine Caneele), bionda bellezza paesana, profilo espressionista diritto, duro, spigoloso, fa l’operaia e abita poco più avanti col suo uomo, Joseph (Philippe Tullier), un tipetto magrolino e collerico che guida lo scuolabus. Pharaone non è la figura cristologica che assume su di sè tutti i mali del mondo, è piuttosto l’uomo che esercita la compassione impotente di quella parte di umanità che arretra muta e sbigottita di fronte al male.

Il senso della perdita lo connota, la figura fisica ne traduce il mondo interiore. Il suo procedere lento, un po’ curvo nelle spalle cadenti, lungo la strada di casa come nelle indagini (“non è credibile come poliziotto“, ha deriso la critica, “sei troppo stupido per essere un poliziotto!” gli ha urlato in faccia un operaio in sciopero davanti al commissariato), la ritualità dei gesti domestici, i rapporti sociali apparentemente inconsistenti, la cura dell’orto in cui coltiva più fiori che legumi, le corse in bicicletta, un passato doloroso segnato dalla perdita di moglie e figlia, un presente in cui la figura di Domino ravviva appena quel viso immobile dagli occhi sconsolatamente tristi, tutto sembra posizionarsi lungo una piatta traiettoria orizzontale senza scosse.

L’immobilità del cadavere si proietta sul tempo reale degli uomini, vuoto, insensibile, privo di significato visibile a occhio nudo. Domino e Joseph si accoppiano in amplesi furenti e meccanici, portano con loro Pharaone in gite domenicali piene di noia, Domino si offre a Pharaone con squallido altruismo, la vita muore un po’ ogni giorno a Bailleul, cristallizzata nell’indifferenza.

Della bambina non si parla, gli interrogatori intersecano in brevi sequenze prive di tensione il corso ordinario delle cose e finiscono su binari morti, per quasi due ore si continua a cercare il thriller, ci si aspetta che scappi fuori il colpevole, ma ogni volta siamo respinti indietro dall’eloquenza delle immagini che si negano ad ogni impennata emotiva, un’umanità catatonica sopravvive in spazi asettici.

Fino all’urlo, inatteso, spiazzante, di Pharaone, mentre raccoglie indizi sul luogo del delitto e intanto passa l’Eurostar che ne copre il sonoro.

Nessuno può sentirlo, implode come metafora visiva in quel tempo-immagine più vero del verosimile cinematografico in cui si svolge la tragedia della sofferenza e della pietà di quest’uomo.

La sua umanità è tutta in quel passo lento, nei gesti trattenuti, nel chiudere a volte quegli occhi, nel raccogliersi in attonito turbamento davanti al quadro con bambina e cagnolino del nonno, mentre il direttore del Museo lo guarda un po’ imbarazzato, ma sembra capire.

Nell’accarezzare un fiore giallo del suo orticello c’è la sua umanità, nella mano che passa e ripassa sulle setole della scrofa circondata dalla nidiata dei porcellini, nell’abbraccio con cui avvolge l’infermiere dell’ospedale psichiatrico mentre guardano i “matti” dalla finestra. Nel bacio al colpevole dell’omicidio, che sembra un’infusione di ossigeno per ridare la vita.

Siamo dalle parti di Giotto, Il bacio di Giuda, la stessa muta ed eloquente rappresentazione della realtà oltre il visibile, il perdono, l’amore, il tradimento, la stessa composizione formale a parti invertite.

C’è un “tempo pittorico”, nel film, che rimanda ogni volta a figurazioni impresse nell’immaginario e la narrazione sembra essere la loro conseguenza.

Duchamp, Munch, Giotto, De Winter in un “visibile performativo” che diventa luogo della comunicazione, medium di espressività in cui la complessità del reale esplora la possibilità di linguaggi altri, l’immaginario precede la realtà e lo sguardo diviene strumento di conoscenza.

Siamo a quella che Arnheim definiva: “La forza d’urto delle forze trasmesse da un pattern visivo, parte intrinseca del percetto proprio come lo sono la forma e il colore. In effetti l’espressione si può descrivere come il contenuto primario della visione […] Il profilo di una montagna è dolce o minacciosamente duro, una coperta gettata su una seggiola potrà apparire triste, stanca e via dicendo [… ] Se l’espressione è il contenuto primario della visione nella vita giornaliera, lo stesso dovrebbe valere per la maniera in cui l’artista osserva il mondo. Le qualità espressive sono i suoi mezzi di comunicazione, esse attraggono la sua attenzione, attraverso esse egli comprende e interpreta le sue esperienze e sono esse a determinare i pattern formali che egli crea” [1]

Film incompiuto, se guardato con l’occhio fisso alle storie (l’omicidio, lo sciopero nella fabbrica di Domino, l’intreccio sentimentale Domino/Joseph/Pharaone), film policentrico nel rincorrersi delle sue dinamiche interne sempre divergenti ad un passo dallo scioglimento dei nodi, film metafisico in cui spazi geometricamente plausibili risultano poi inediti e inquietanti, se Pharaone può all’improvviso lievitare dal suolo mentre, di spalle, guarda l’orizzonte, film in cui l’humanitas, parola antica, difficile, espropriata dalla storia è, forse, recuperata dall’individuo.

L’humanité : il titolo ha caratteri minuscoli per volontà del regista, perchè è “la qualité humaine d’un homme et d’un individu. Moi ce qui m’intéresse c’est de filmer les individus, j’essaie pas de saisir le genre humain”.

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[1] Rudolf Arnheim, Art and Visual perception: a psychology of the creative eye, Berkeley – Los Angeles, 1954 , p. 357 (trad. Gillo Dorfles)

L’Umanità

titolo originale: L’humanité

Francia durata 145′

regia di Bruno Dumont

con Emmanuel Schotté, Severine Caneele, Philippe Tullier, Ginette Allegre

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