Lo stato delle cose di Wim Wenders

Nell’ ’83 Wenders s’imbatte in una frase di Cézanne:Tutto va scomparendo, dobbiamo affrettarci se vogliamo vedere ancora qualcosa”.

E’ una conferma. L’anno prima aveva girato Lo stato delle cose dopo l’interruzione delle riprese di Hammet, l’infelice esperienza americana prodotta da CoppolaLa storia appartiene al produttore” dice Wenders nel commento fuori campo a Quand je m’éveille, diario-film successivo, parlando dell’ennesimo taglio nel montaggio di Hammet è il sistema americano”.

Wenders ora riflette sul cinema e sul suo destino, Lo stato delle cose è un film a tesi sul significato del raccontare per immagini e dell’immagine stessa.

Due locations, Sintra in Portogallo, la punta più avanzata nell’Atlantico del continente europeo, “… onde a terra se acaba e o mar começa”, cantava Camoes, la costa da cui partivano i conquistadores del nuovo mondo.

Un albergo semidistrutto da mareggiate dove il cast aspetta Gordon, il produttore sparito nel nulla con i finanziamenti, interni di stanze dove si consumano stanchi amplessi, scorci del Bairro Alto a Lisbona con l’electrico che arranca, e poi Los Angeles, gli studios, le strade, il vetro, l’acciaio, prospettive dall’alto su grattacieli.

Il prologo: la troupe sta girando The survivors, film di fantascienza classica, un after day girato in “effetto notte”, B-movie sulla scia del The most dangerous man di Allan Dwan. Le riprese s’interrompono, Joe, fotografo di scena (un Samuel Fuller disincantato e genialmente caustico) dice che con la pellicola che resta al massimo fanno un primo piano. Friedrich, il regista, alter ego di Wenders, è la simbiosi perfetta nel viso, nei gesti, nel lungo corpo che si muove calmo e teso, delle varie anime dell’Europa, e la parola adatta è saudade, sensucht, nostalgia e desiderio in convivenza inconciliabile.

Parte per Los Angeles, lascia dietro di sé marionette senza fili, personaggi senza autore, e trova Gordon in fuga da indeterminate e misteriose minacce di morte da parte di non si sa chi in una casa-mobile che gira senza meta per le strade della città, un mondo di strade su strade (“Strada maestra, ma non è quello con Bogart, Lupino, Raft?” urla Herbert, lo schizzato che guida la mobil-house, mentre un flash fulmineo inquadra Fritz Lang ridotto a nome su una mattonella del selciato e superano un cinema in cui proiettano Sentieri Selvaggi).

Qui Carlos Santana, assistente alla regia in Portogallo, e la musica di Jurgen Knieper cedono il passo a Greg Gears e al motivetto di Allen Goorvitz Hollywood Hollywood che s’intreccia a mo’ di cantilena infantile alle frasi di Friedrich. Nelle parole dei due si confrontano due concezioni, del cinema e della vita, e la prima è perdente.

L’Europa soccombe con la sua tradizione classica che seziona e ricompone nel gioco dialettico, allegorizza e organizza, produce senso nel sotterraneo rimando analogico e dà forma prismatica al “deserto del reale”.

L’America è azione, movimento, “il cinema non c’entra con la vita– urla Gordon a Friedrich- queste cose il pubblico non le vuole, e poi, bianco e nero! Quando facevo vedere i giornalieri ai finanziatori mi chiedevano “Che succede col colore? Sembra in bianco e nero” . Se avessi girato lo stesso film a colori, con un soggetto, dovevi tirarmi fuori un soggetto, ora sarei su un trono, solo le zebre usano il bianco e nero!”

Wenders non pone al centro il film da fare ma l’impossibilità di fare cinema. Il focus è l’assenza, il vuoto, la perdita di senso.Lo stato delle cose, dunque.Il colloquio nella casa mobile è definitivo, voler fare film è un suicidio, e poi, in bianco e nero!

Joe l’aveva detto “La vita è a colori ma il bianco e nero è più realistico”, Gordon gli ha creduto e si è rovinato.Fuori, sulla strada, l’aspetta una pallottola.

 Nel film irrompe improvvisa l’azione, dopo tanto vuoto, tanta assenza e costruisce realtà nuova “… come viene fuori il soggetto la vita se ne va e tutti i soggetti raccontano la morte”.

Memorabile, dopo il primo sparo che abbatte Gordon, il gesto fulmineo di Friedrich che punta la cinepresa come una magnum. Pochi secondi, l’altra pallottola è per lui. La macchina cade e continua a filmare di sbieco, una strada, una macchina che passa.

Soltanto nel finale di questo film a tesi, con l’episodio americano, un po’ di finzione salva quest’opera anti-finzione– fa WendersAllan Dawn ha finito per vincere.”

Ora il Cinema, alias il Potere, può plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Lo stato delle cose

titolo originale:Der Stand der Dinge 

Germania, 1982, durata 120’

regia di Wim Wenders

con Patrick Bauchau, Viva Auder, Samuel Fuller, Allen Goorwitz, Paul Getty III

 

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