Maboroshi di Kore-eda Hirokazu

Dal romanzo di Miyamoto Teru, una storia di Kore-eda (è il suo primo lungometraggio) sulla memoria e sulla morte che cammina accanto alla vita, così vicina da non lasciare la giusta distanza prospettica, le cose si confondono se troppo vicine e Yumiko, sposa di Ikuo e madre di Yuichi, si chiederà fino alla scena finale perché quel giorno Ikuo camminava sui binari e perché non ha reagito al fischio del treno e allo stridere dei freni.

E, soprattutto, perché l’ha salutata sorridendo, quando è passato da casa a prendere l’ombrello, ma poi non si è girato a guardarla ancora una volta, e lei era lì, in mezzo alla strada, protesa verso di lui, il lungo corpo affusolato fasciato da quegli abiti severi, neri come i lunghi capelli raccolti a coda.

Yumiko, bambina, era corsa anche quell’altra volta, sul ponte di Osaka, per trattenere la nonna che andava via, voleva morire nel suo paese, diceva, e poi di lei non si era trovata più traccia e Yumiko non era riuscita a trattenerla.

Ma questo è un sogno, dopo anni è ancora dentro di lei, una morte che diventa sogno inspiegabile, angoscia muta che s’incarna in lei e segna il corso degli eventi, e quel bambino che ha fatto nascere e che cura con dolcezza non ha avuto abbastanza forza per esorcizzare quest’altra morte assurda, inspiegabile, che lascia tracce così profonde nella memoria da impedire alla vita di farsi ancora strada.

Ma Yumiko deve sopravvivere in qualche modo, rientrare in quei binari lungo i quali scorre l’economia del mondo.

Sposerà Tamio, un brav’uomo che vive in un paesetto sul mare, che accoglie donna e bambino con discrezione, ha studiato in città e mai avrebbe pensato di tornare lì a lavorare.

Il matrimonio con Yumiko è combinato a distanza, lui è vedovo con una bambina, un padre anziano che vive nel silenzio, quasi immobile, immerso in quella condizione di ekaksana (eterno presente privo di scopo) di pura matrice Zen.

Sarà proprio questa figura paterna, nel finale, la chiave di lettura del film, maboroshi, il miraggio, il raggio di illusione, la luce di un fantasma, la misteriosa luce che viene dal mare e attrae a sè, è accaduto a lui e può accadere a chiunque, sul binario di un treno, oltre il ponte di Osaka o dovunque si riesca a superare il confine e acquisire la coscienza del mu, il nulla, quell’unico carattere inciso a Engaku-ji, sulla tomba di Ozu.

Yumiko ha attraversato anni chiusa nella sua angoscia silenziosa, il passato è immanente e il lutto non viene elaborato in alcun modo, la sua figura vestita di nero ha l’eleganza e la compostezza di un’eroina della tragedia greca che convive con la morte ed è lacerata dall’assenza.

 “Documento sulle ombre e le luci che abitano una donna”, l’uso sapiente della luce diventa linguaggio nel lento susseguirsi del tempo del racconto, filtra tra le fessure dei gradini di legno mentre Yumiko sale la scala semibuia per andare dal commissario che le comunicherà la morte di Ikuo, illumina nello spazio nero solo le sue mani che stringono le chiavi della bici di lui, entra dalla finestra, piena, solare, col rumore del treno, quando sta per lasciare la vecchia vita col piccolo Yuichi di tre anni.

E’ luce che resta fuori, oltre la finestra, mentre lei nella stanza è avvolta dall’ombra in controluce, è la semiluna verde alla fine del tunnel dove si vedono i bambini giocare, ma la mdp è dentro, immersa nel buio, è sempre la luce sul mare, ora calmo ora mugghiante da far paura, dove ancora una volta aleggia il fantasma della morte, la vecchietta del paese che è uscita in barca e non torna.

Yumiko la guarda andare, il suo profilo vicino alla finestra è chiaro nel buio totale che la circonda.

Ma, all’improvviso, la signora Tomeno torna, a nuoto, e l’aveva detto il vecchio padre uscendo dal suo silenzio:

Nessuno conosce il mare come lei”.

Dunque la morte temuta, attesa, non si verifica.

Yumiko tace e si avvia verso l’ultima sequenza, una lenta trenodia che si snoda in un paesaggio irreale, il mare sullo sfondo, la lunga spiaggia attraversata da figurine nere, stilizzate, di un corteo funebre, in una scansione simmetrica di spazi fra cielo e terra segnata da colori morbidi, caldi, mentre la musica ha sonorità antiche di liuti e archi.

Il cielo plumbeo domina lo spazio e il grigio sfuma verso l’orizzonte in un angolo rosato di luce. Nel campo lunghissimo Yumiko cammina, sola. Tamio la raggiunge, c’è la pira accesa dell’incinerazione sugli scogli dell’ultima lingua di terra, il fumo nero e denso si divide in due scie.

Perchè si è ucciso?

In un controluce di grande potenza visiva i due si avvicinano, la musica tace e si sente il mare.

La luce rosa è all’orizzonte, maboroshi, la stessa che un giorno scintillava in lontananza e chiamava il padre di Tamio.

Nell’ultima scena Yumiko indosserà per la prima volta un vestito di seta colorata.

Che bellissima stagione “ dice il vecchio padre mentre lei si siede al suo fianco e i bambini imparano ad andare in bicicletta.

L’alfabeto artistico Zen è parte costitutiva del cinema di Kore-Eda.

Io sono la natura e la natura è me, tutte le cose fanno parte di un unico Essere, qualsiasi separazione tra l’uomo e la natura è falsa” afferma D.T.Suzuki, studioso di Zen.

Come in Ozu, di cui Kore-eda è l’erede più diretto “… il desiderio di rappresentare l’aware, il mondo ideale o l’estasi, viene formalizzato nella triade dello stile trascendentale…

1) la quotidianità: una meticolosa rappresentazione dei banali, insulsi luoghi comuni della vita di tutti i giorni…

2) la scissione: una reale o potenziale separazione tra l’uomo e il suo ambiente che culmina in un evento decisivo…

3) una visione cristallizzata della vita che non risolve la scissione ma la trascende… 

La stasi è il risultato finale dello stile trascendentale, una visione pacificata della vita… l’evento decisivo non scioglie la scissione ma la cristallizza nella stasi.” (P.Schrader, Il trascendente nel cinema, ed. Donzelli 2010, p. 33 ss.)

_____________________

Maboroshi

titolo originale: Maboroshi no hikari

Giappone 1995 durata 110′  

di Kore-eda Hirokazu con Esumi Makiko,  Naitô Takashi, Asano Tadanobu, Kashiyama Gohki

_____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.