Madadayo di Kurosawa Akira

Per una rassegna completa dell’opera di Kurosawa v. in Retrospettive:

Kurosawa Akira

E’ l’ultimo film di Kurosawa Akira, girato nel 1993, nel 1998 morì, il 23 marzo, all’inizio della stagione che più amava.

Un film quasi sconosciuto, a meno che non si sia suoi ferventi seguaci, e neanche dei suoi migliori, ma è il suo addio a tutti noi che non lo dimentichiamo come sta facendo il cinema che pure lo vede al primo posto nelle classifiche dei 500 più grandi registi del mondo.

Nessun restauro dei suoi film, qualche anno fa si vociferò di restaurare Dersu Uzala ma il progetto svanì nel nulla.

Ma i suoi film sono meravigliosi anche cosi, come l’Incompiuta di Schubert che Masako dirige nel parco vuoto di Tokyo di fronte ad un’orchestra  immaginaria in Una domenica meravigliosa.

Maadha kay?” “sei pronto?” gridano i bambini al compagno che è andato a nascondersi nel mucchio di fieno.

Madadayo!” “non ancora!” risponde lui, e il gioco continua.

E’ l’ultima scena dell’ultimo film dell’ “imperatore”: spazi aperti di campagna verde, sole e nuvole bianche, leggere nel cielo azzurro, bambini che giocano rumorosi.

E’ anche il sogno del prof. Hyakken Uchida, il protagonista ricalcato sulla figura dell’illustre germanista giapponese morto nel ’71, a ottantadue anni.

Kurosawa sceglie un “buon maestro” ed il folto stuolo di ex allievi per raccontarci con leggerezza, tocchi di umorismo, stile minimalista di sapore molto orientale, si potrebbe dire Zen, la storia di un legame che, nella tipologia varia delle forme di amicizia tra uomini, è uno dei più singolari.

E’ quel filo sottile e indistruttibile che unisce per tutta la vita gli allievi ad un buon maestro e nasce da ammirazione, rispetto, condivisione, fino a diventare vero e proprio affetto, uno dei più solidi della vita.

Uchida è “un uomo d’oro zecchino” per i suoi alunni, Kurosawa mette in scena un’ idea antica, che dal Giardino di Epicuro ai Maestri di sapienza orientale è la più cosmopolita che sia dato conoscere.

A 83 anni, dopo aver indagato per cinquant’anni miseria e nobiltà dell’uomo, Kurosawa torna ai giovani e ai vecchi per tirare le somme e indicare, anche lui da buon maestro, cosa conta davvero nella vita.

Cercate in voi stessi quello che ritenete veramente importante da amare e battetevi per realizzarlo fino in fondo dirà Uchida ai bambini, figli dei figli dei suoi ex alunni, che gli portano la torta del settantasettesimo compleanno. La trasmissione del sapere come trasmissione dell’arte di vivere è dunque il segreto della continuità.

Ho avuto dei buoni maestriha detto Kurosawaciò che sono diventato lo devo agli incontri fatti nel collegio, al liceo e nell’ambiente del cinema. Ho avuto la fortuna di affiancarmi a grandi realizzatori come Yamamoto, Ozu, Mizoguchi e Naruse, ai quali devo molto. Erano profondamente umani e dai contatti avuti con loro ho imparato enormemente. Io penso che il modo migliore d’insegnare i valori della vita era quella praticata dai veri Maestri di una volta, basata sulla loro personale esperienza”.

Dal giorno del sessantesimo compleanno, anno in cui il prof. lascia l’insegnamento, per diciassette anni ancora festeggerà con gli alunni che, ritualmente, gli chiederanno: “Maadha kay?” e lui griderà: “Madadayo!”, non ancora, scolando poi d’un sol fiato il bicchierone di birra.

Dunque la morte può aspettare, e aspetterà per sempre quest’ uomo minuto, ironico, che ha paura del buio e dei tuoni, che disegna sul muro di fronte a casa una forbice per tener lontano chi crede che sia un orinatoio, che si dispera per 45 minuti buoni del film alla sparizione del bel gattone Nora, che vuole un laghetto nella casa che gli offrono gli studenti (dovevano pur tirarlo fuori dalla casupola dove era finito dopo i bombardamenti, non poteva neanche riceverli per le loro bevute di sakè!), ma dev’essere grande abbastanza, altrimenti “le trote si incurveranno, a furia di girare in tondo convinte di nuotare in avanti!”

Uchida è un uomo grande e semplice, che dall’incendio della casa bombardata ha salvato l’ unico libro del poeta Kamono Chomei ed è Hojoki (Ricordi della mia capanna di eremita).

“… E ora, giunto al momento in cui la rugiada dei miei sessanta anni sta per svanire, mi sono ancora costruito un’ultima foglia di abituro, simile al rifugio notturno di un cacciatore o al bozzolo di un vecchio filugello. Esso non è che la centesima parte di quello che avevo prima; e così, mentre la mia età va declinando, la mia dimora si restringe …”

Kurosawa chiude lasciandoci un’elegia dai toni sommessi in un’opera che non ha molto senso chiedersi se sia “minore”, se e quanto sia coerente con la sua storia di artista.

E’ il divertissement dell’uomo che ha vissuto, è il dramma satiresco che seguiva la trilogia tragica, è la quiete dopo la tempesta che l’Estro Armonico di Vivaldi commenta nei momenti chiave: l’arrivo del gattino bianco e nero che prenderà il posto di Nora, le stagioni che scorrono e il sogno finale.

E come il grande musicista veneziano compose la maggior parte delle sue opere per le “pute della Pietà”, opera di assistenza per ragazze povere, emarginate, spesso deformi, e a loro insegnò a suonare i suoi “allegri” pieni di colore ed energia e i dolcissimi “adagi” che “spalancano all’improvviso le finestre di una sala barocca e fanno respirare una ventata d’aria fresca“(Alfred Einstein), così la vena inventiva inesauribile di Kurosawa riesce ancora una volta a creare scenari nuovi, inusitati e lasciarli scorrere con grande naturalezza.

Madadayo è un racconto fragile e prezioso sul senso della vita, sui legami che in essa possono nascere, sulla ricerca della semplicità.

Addio Kurosawa san!

Madadayo

Giappone 1993 durata 134′

regia di Kurosawa Akira

con Matsumura Tatsuo, Kagawa Kyoko, Igawa Hisashi, Tokoro George, Yui Masayuki, Terao Akira

musica:Ikebe Shinichiro, Vivaldi (Estro Armonico,concerto n.9)

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