Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt

1845, Stephen Meek è una guida per cui il deserto non ha segreti.

Col suo vestito alla Davy Crockett e il cappellaccio sotto il quale si intravedono solo gli occhi che spuntano fra barba e capelli, porta una carovana di tre famiglie verso le Cascade Mountains, staccandosi dal resto del gruppo in marcia lungo l’Oregon Trail.

Fidandosi troppo di sé ha preso una scorciatoia finendo per perdere la strada (cutoff, il sentiero scorciatoia, il taglio).

Il film inizia quando già il gruppo è in panne, uno di loro incide lost su una carcassa, hanno attraversato già quattro volte lo stesso fiume e ora se ne dovranno allontanare definitivamente.

Andare verso nord? andare verso sud? Nessuno lo sa, l’ovest è sbarrato da una distesa d’acqua alcalina, non buona neppure per le bestie, buoi e asini che trascinano con lentezza esasperante i tre carri che diventeranno due dopo una rovinosa discesa.

La Reichardt gira in 4:3 e il deserto dell’Oregon sembra non finire mai, inquadrato così in verticale sembra un imbuto da cui venir risucchiati, nessuna concessione ai liberi e grandi spazi a cui il western ci ha abituato, qui si respira l’aria chiusa di chi è in trappola e così percepisce lo spazio.

La notte scende improvvisa, nessun rumore nel buio, l’alternarsi uguale dei giorni e delle notti scandisce il tempo di questa marcia verso il nulla, distese di pietre o di radi cespugli, polvere e fango disseccato, qualche altura in lontananza, ma non è mai quella giusta.

Questi pionieri non hanno niente di eroico, sono gente comune, sprovveduta, come tutti quelli che allora partivano per l’avventura del West, portandosi dietro miseria, speranza e tanta temerarietà.

Sopravvivere e trovare acqua è l’unica cosa che ora conta, e anche le pepite d’oro che il ragazzino, l’unico del convoglio, ha trovato giù, da qualche parte, non interessano, “l’oro non si beve “.

Il dialogo è scarno, la lettura a voce alta dal Libro della Genesi prima di mangiare è l’unico momento parlato di una certa ampiezza, il lavoro duro, giornaliero, non ha bisogno di parole, la marcia è a piedi, sotto il sole, gli uomini vicini alle bestie e le tre donne dietro, a simmetrica distanza.

L’apparizione dell’ uomo Cayuse, disarmato e vestito di pelli, che traccia segni sulle rocce mappando lo spazio e parla alla luna di notte, che canta una lenta nenia al bovaro semiimpazzito crollato a terra e che parla una lingua incomprensibile, è l’elemento che scatena tutte le contraddizioni.

Seguirlo può essere la salvezza, ma razzismo e pregiudizi emergono e i caratteri di ognuno si delineano netti.

Con la stessa essenzialità con cui descrive lo spazio e scandisce il tempo la Reichard punta il focus sull’ intimo di ognuno, la precisione è chirurgica, rigorosa nel non cedere a nessuna ridondanza, come quel capolavoro del sorriso appena abbozzato, quasi impercettibile, inatteso, del pellerossa seduto a guardare i disastri dell’uomo bianco.

La Reichardt porta sullo schermo, con questo capolavoro di cinema indipendente, il mito della frontiera demitizzato, guardato in controluce, sfocato come la fotografia desaturata che fa sentire la polvere e l’arsura, e quel sonoro lancinante come l’ululato di un coyote ci racconta quella che, per tanti versi, dev’essere stata la realtà più vera di quella epopea del West.

Meek’s Cutoff

USA, 2010, durata 104’

regia di Kelly Reichardt

con Michelle Williams, Paul Dano, Bruce Greenwood, Shirley Henderson, Will Patton, Zoe Kazan, Neal Huff, Tommy Nelson, Rod Rondeaux

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