No man’s land di Denis Tanovic

Dalla nebbia in cui si sono persi mentre trasferivano un convoglio militare emergono nella terra di nessuno, fra le linee nemiche, soldati bosniaci (siamo nel ’93, guerra serbo-bosniaca) che una pioggia di fuoco improvvisa spazza via appena torna la visibilità.
Sopravvive Ciki, riparato dentro una trincea da dove vede il cadavere dell’amico Cera.
Dei due serbi mandati in ricognizione dopo l’assalto e presi a fucilate da Ciki, sopravvive Nino, anche lui ora in trappola nella trincea.
A far compagnia a Nino e Ciki dentro la buca è dunque Cera, creduto cadavere e sistemato dal serbo su una mina che ha una caratteristica tutta particolare: esplode solo se il peso appoggiato sopra viene sollevato.
Apprendiamo subito che si tratta di una mina senza disinnesco, di quelle spedite per uccidere e basta.
Dunque, dice Nino il serbo, quando i bosniaci verranno a prendere i cadaveri, ci sarà festa per cinquanta metri all’intorno.
Il problema è che Cera non è morto, è solo svenuto.
Dovrà allora restare lì, immobile, appena ripresi i sensi, e lo farà sotto un sole spietato, ferito senza possibilità di cure, fino alla dissolvenza finale che riprende dall’alto la trincea dove ormai è rimasto solo lui, un puntino sempre più lontano, mentre il sole tramonta.

Se c’era bisogno di trovare un modo ancora per parlare di guerra fuori dai luoghi comuni, Danis Tanovic l’ha trovato con questa sua opera prima, una storia circoscritta nell’arco di una giornata, che ripristina le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione per una concentrazione ad alta densità di orrore, follia e pietà.

Girato a sei anni dalla fine di quel conflitto serbo/bosniaco che negli anni novanta rinnovò i fasti del Vietnam, con l’aggravante della cosiddetta “pulizia etnica” decisa a tavolino e perpetrata a spese di donne e uomini inermi, diffuso dai media mondiali con la dovizia di particolari che solo l’era della tecnologia avanzata poteva permettere, questo film non cerca rimozioni, non segna demarcazioni fra colpe e ragioni, amici e nemici.
Si tuffa, anzi, nel pieno dell’orrore, non fa sconti a nessuno, sceglie, se mai, il sarcasmo, cifra stilistica quanto mai adeguata nel suo etimo greco di sarkàzein,“mordersi le labbra per la rabbia” e, per slittamento semantico, “tagliare un pezzo di carne da qualcuno”.

Tanovic ha vissuto da cittadino di Sarajevo quel teatro tragico e mette nella buca bosniaci e serbi che capiscono benissimo i linguaggi reciproci (“La lingua parlata dai Serbi, dai Croati e dai Bosniaci è di fatto la stessa. Oggi i Serbi la chiamano serbo, i Bosniaci bosniaco e i Croati croato. Ma quando parlano si capiscono perfettamente tra loro“) e dunque la lite fra Ciki e Nino si sviluppa con abbondanza di argomentazioni intorno ad un problema di attribuzione:
Chi ha cominciato per primo la guerra?”.

Si ammazzeranno fra loro su questa aporia, mentre sul bordo della trincea si alterneranno in ordine sparso:
a) gli uomini dell’Unprofor, i caschi blu (all’epoca soprannominati Puffi) sul bianco thank che ha l’aria di un giocattolo Lego, che continueranno con macabra litania a dichiararsi incompetenti e impotenti.
b) troupes televisive in cerca di scoop sensazionali, a proporre interviste che sembrerebbero paradossali se non ne avessimo ascoltate tante, anche in tempi successivi e in altre guerre
c) capi di Stato Maggiore preoccupati di non perdere la faccia di fronte al pubblico televisivo e alla comunità internazionale.

Il tutto mentre un condannato a morte sta per trascorrere la notte sdraiato sulla mina e, caso unico nella storia, sarà lui stesso a decidere quando staccare la corrente.

Un film che non ha bisogno di aggiungere altro sulla guerra e sulla follia dell’uomo. Lo spettatore è proiettato dentro una claustrofobica e alienante narrazione in cui l’impostazione globale nega alla radici ogni “regola” cinematografica.
L’immobilità è la condizione irreversibile, ed è la prima negazione dello statuto del cinema, immagine in movimento.
Sulla scena scorrono personaggi che hanno perso lo spessore di esseri umani per ridursi a maschere di un film a-filmico, visionario e profetico, che mette a nudo con agghiacciante realismo le trappole e i meccanismi del potere e della schiavitù, tanto più devastanti quanto più abilmente mimetizzati.
La guerra guerreggiata non c’è. Dopo la rumorosa esplosione iniziale resta sullo sfondo.
In primo piano resta la delirante realtà di un’umanità che ha smarrito la strada.


No man’s land
Bosnia/Italia/Francia/Gran Bretagna, 2001 durata 98’
regia di Danis Tanovic

con Branko Djuric, Rene Bitorajac, Georges Siatidis, Katrin Cartlidge

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