Retrospettive – Quei loro incontri

Film studio, 2005 :“Perchè ha scelto Cesare Pavese come letterato sulla cui opera basare un film?”

Straub: Non si sceglie un letterato. Si fa un incontro, come nella vita. Non ho letto tutto Pavese, ho scoperto due suoi libri, e mi hanno colpito. Basta. Anzi il prossimo film, che sarà anche l’ultimo che giriamo in Italia, in Toscana intorno al Monte Pisano, sarà il seguito della prima parte di Dalla nube alla resistenza. Adesso faremo un film con i cinque ultimi dialoghi di Pavese, che era l’unico scrittore che non era compiaciuto di sé stesso, il che in Italia vuol dire molto.

Dal mito alla storia, gli Straub-Huillet tornano sui Dialoghi con Leucò facendo recitare un gruppo di dieci attori. La cornice è il verde frusciante della macchia mediterranea (siamo nella campagna pisana). Colori e atmosfere tipiche del dramma pastorale, personaggi immobili che recitano i dialoghi, suggestioni pittoriche del naturalismo ottocentesco si fondono ad incursioni nella prospettiva aerea delle tele di Manet.

La macchina scruta il paesaggio con occhio incantato, il montaggio alterna con semplicità lineare il totale dell’ambiente e i due campi americani sugli attori, i dialoghi terminano con un lungo segmento di silenzio, lo stesso che separa ogni verso, l’enjambement è straniante, le voci declamano, è teatro/cinema ed è l’eco di un passato mitico.

Gli elementi della natura, compagni di vita quotidiana, diventano oggetto di stupore, epifanie di immortalità.

Il testo di Pavese si trasforma in linguaggio filmico e s’immerge in quella dimensione orale/aurale in cui il mito parlò all’uomo del dolore e della morte, del destino e delle leggi imperscrutabili del Fato.

Il dramma di una società sconvolta dagli orrori delle due guerre e il doloroso senso di smarrimento, l’incapacità di radicarsi a certezze e valori irreparabilmente compromessi, la solitudine disperante dell’uomo che non trova risposte al perché della sua esistenza, l’angoscia del tragico non-senso delle cose, furono l’esperienza umana e letteraria di Pavese, “esemplare e cruciale di tutta una generazione ” (I.Calvino).

Nei Dialoghi, la sua opera più coraggiosa ed estrema, lo scrittore affrontò un discorso d’avanguardia sulla contemporaneità che allora non fu capito (tra il 1945 e il 1947), anzi gli valse l’accusa di disimpegno da parte del mondo della cultura.

Il realismo imperante del secondo dopoguerra marchiò l’autore di allontanamento dai problemi, di fuga dal mondo, mentre Pavese non faceva altro che parlare del mondo e del suo destino, della morte e della felicità dell’uomo, ma il suo linguaggio era una sfida al conformismo del proprio tempo.

L’Italia è il paese dove ogni scheletro si sistema nell’armadio, in cui tutto viene rimosso, in cui tutto cade nel pozzo dell’indifferenza e quel che c’è in comune tra Vittorini e Pavese è proprio invece il fatto che erano spiriti che non facevano questi giochini.” aggiunge Jean-Marie Straub, rendendoci ancor meglio conto delle sue scelte letterarie.

Nasce così un film rigoroso, innovativo, coerente con il lungo impegno della coppia franco-tedesca di minare le estetiche tradizionali, muovendosi contro le vecchie strutture narrative.

Il percorso fra i Dialoghi va dal momento in cui gli dei cominciarono ad invidiare gli uomini a quando gli uomini ricordarono che una volta si incontravano con gli dei.


L’oggetto del dialogo tra gli immortali è l’incapacità degli uomini di trovare soddisfazione alla vita: “… loro che hanno istanti unici non ne capiscono il valore e vogliono l’immortalità“.

Il destino dell’uomo è ineluttabile e la morte necessaria, ma egli non trova in ciò che già possiede la propria felicità.

La mia felicità sarebbe perfettascriveva Pavese ne Il mestiere di viverese non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre. Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo”.

Il film di Straub-Huillet rivela una comprensione intima, quasi viscerale, della poetica di Pavese, profondamente consapevole com’è della tensione etica di quella grande voce del’900 che parlava della “… morte come destino, come sorriso di chi accetta sé stesso e la sorte, come fare una cosa già fatta, già esistita prima che si nasca, come coscienza che “ciò ch’è stato sarà”, come ricerca di sé stesso nel sangue che gonfia le vene e accende gli occhi, nella voce che fa eco ad altre voci, violando i silenzi inaccessibili dei cieli selvaggi; trasformare tutto in azione, attesa e speranza del tempo, il futuro in passato, e nominare le cose per fermarle come ricordo, facendole riemergere dal silenzio delle origini” (F.Mollia, Cesare Pavese, ed.La Nuova Italia,1963).

Le polemiche nate intorno al film e alle dichiarazioni fatte pervenire da Straub, assente per motivi di salute, al Festival di Venezia del 2006, le recensioni spesso negative che il film ha ricevuto, ma soprattutto l’alone di ignoranza ancora esistente intorno alla filmografia dei due registi, rivelano una fatale convergenza con il destino di Pavese.

Italia/Francia 2006 durata 68’

di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

con Angela Nugara, Grazia Orsi, Vittorio Vigneri, Romano Guelfi, Angela Durantini, Enrico Achilli, Giovanna  Daddi, Dario Marconcini, Andrea Bacci, Andrea Balducci

MUSICA: Ludwig van Beethoven, quartetto n. 11, op. 59.

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