Shara di Naomi Kawase

Un gattino che dorme, un giardinetto di piante modeste invasate con cura, una bici che corre con la compagna di scuola in piedi, dietro, cicale che cantano fino a morirne, uomini, un tempo, che s’incantarono ad ascoltare la voce delle Muse, ci raccontò Platone.

Il tin tin del bonzo che percuote il tamburo della preghiera e lo stormire denso di un albero…

Da quelle oscurità un Nume parla.

Senso panico della natura, cose qualsiasi di vita quotidiana e mistero insondabile dell’Universo. Kawase Naomi mette in scena la vita e il suo mistero, la vita e la sua luce.

Ombre/Luce sono i due ideogrammi che Taku, padre di Shun, disegna con il pennello intinto nel denso inchiostro nero del suo laboratorio di incisore.

In realtà, più che il cinema in bianco e nero, mi interessa l’immagine di un pennello mentre scrive un ideogramma sulla carta di riso giapponese. La carta di riso non è mai bianca, ha una grana particolare, piuttosto porosa, assorbe il colore, ma lo lascia diffondere anche con facilità; con un pennello e un bell’inchiostro, si può rendere la tinta della carta, quella del colore in cui è stato intinto il pennello, ma anche tutte le varie sfumature che sfuggono alla scrittura, perchè l’inchiostro si dilata sulla carta. Vorrei girare un film fedele a quest’immagine! Kawase Naomi

Shun non sa elaborare il suo lutto. Giocava con Kei, cinque anni prima, il gemello di dodici anni, dopo la festa del dio Jizo correvano per strada toccando felici le lampade colorate appese alle porte. Una folata di aria gelida aveva scomposto i capelli di Shun e Kei era sparito nel nulla.

Dov’è Kei?

L’ha rapito un Dio…

Voci anonime, Kei non tornerà più, un giorno lo troveranno, Taku dovrà riconoscerlo. Kawase lascia a poche battute di dialogo l’eco dell’orrore, il tragico affiora sul basso continuo dello scorrere dei giorni  senza che nulla perda il suo posto scomponendo l’ordine delle cose, fa dire tutto ad un vibrato minimo che fa tremare. Shun ha la mano del padre, disegna ritratti nella scuola superiore, accademia di musica e arte.

Yu, diciassette anni anche lei, posa per lui, due profonde tristezze mute, un giorno il padre l’ha abbandonata e la madre quasi ne moriva. La zia, più serena di una madre, l’ha allevata, ma non è la stessa cosa, quella tristezza uno se la porta dietro, come Kawase Naomi, che sembra voglia esorcizzare così la sua storia personale.

E’ una storia densa di ellissi, Shara, lunghi piani sequenza, musica quasi assente, rumori della natura e risonanze da liturgie locali, un canto leggero di donna, alla fine, nella panoramica aerea sui tetti di Nara, antica capitale del Giappone, luogo natale della regista che recita nella parte della dolcissima Reiko, la madre di Shun. La macchina a mano riprende, lenta, quasi ferma, interni in penombra, esce e accelera, poi frena, dà la misura al tempo della storia.

Kawase Naomi ha scelto la purezza di Ozu nel raccontare, realismo e poesia in un’unica formula.

Shara è un film sull’assenza e sulla possibilità di rinascere, un tema eterno cantato in infinite variazioni, Kawase ha trovato il suo linguaggio e le parole giuste, e l’ha messo in scena.

“Sarà contraddittorio sostenere che un film possa mostrare ciò che non è visibile, ma io credo che sia vero. Prendiamo per esempio il vento: è un elemento non raffigurabile, ma se ne può intuire la presenza da tutti gli effetti che genera, da tutti i movimenti che determina. E’ possibile proprio perchè un film non è un riquadro a sé stante nel flusso della realtà, ma uno dei suoi tanti momenti, collocato proprio nello scorrere stesso della realtà.” Kawase Naomi

La donna è il legame tra essere e non essere, paura e gioia, ombra e luce. Shun e il padre sembrano figure destabilizzate, l’uno chiuso nel suo silenzio, l’altro proiettato in un ipercinetismo altrettanto sospetto, tranne quando, di fronte al ritratto di Kei disegnato da Shun, dirà:

Dobbiamo guardare in faccia le cose. Ci sono cose che si possono dimenticare e quelle che non si devono dimenticare, e poi quelle che si devono dimenticare. Io ho provato a dividere le cose in queste categorie.

 E questo cosa ci dà? chiede Shun

Taku disegna Ombre/Luce sulla carta di riso. Taku ha organizzato con il comitato di quartiere la festa di Basara, pérformance di danza che scorrerà per le strade coinvolgendo la gente in un tripudio orgiastico di suono, movimento e colore, il giallo e il bianco.

Yu guida la danza, la scena è maestosa, lei è irriconoscibile nell’estasi che la trascina, ieri ragazzetta triste in gonnellina blu a pieghe e candida camicetta, oggi sacerdotessa di un rito purificatorio che celebra l’ebbrezza dionisiaca della liberazione.

Basara è al centro del film, sequenza dinamica di forte impatto visivo, riafferma con forza la gioia di essere vivi, esorcizza la morte in un rituale collettivo in cui l’individuo perde i suoi connotati per diventare “altro”, e dunque reimmergersi in quella “totalità” uomo/natura da cui, solo, può nascere la vita.Una pioggia diluviante e improvvisa invade la scena, la danza continua, il crescendo tocca il suo apice. Ora può rinascere la vita, dal grembo di Reiko, un parto che chiude questo racconto che non è racconto, come raccontare trasformando in materia narrata il fluire della vita?

E’ un parto a cui assistiamo vinti dalla naturalezza dei gesti, delle voci che circondano Reiko e aiutano il suo respiro, un training collettivo fino al primo vagito, al sorriso commosso di Tako che ha tenuto la testa di Reiko sulle sue ginocchia, al viso sofferente e sereno della madre e al pianto di Shun. Yu, la madre surrogata più dolce di una madre vera, la levatrice, il piccolo che fa il suo primo shampo.

Presenze di questa ultima scena, dall’assenza alla presenza, il dio che nasce due volte, come Dioniso, la vita contro la morte dei sensi.

Shara

titolo originale: Sharasojyu 

Giappone, 2003 durta 100’

regia di Naomi Kawase

con Kohei Fukunaga, Yuka Hyyoudo, Naomi Kawase, Kanako Higuchi

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