SIERANEVADA di Cristi Puiu

Tutta la vita appare come un formidabile equivoco di cui non bisognerebbe mai smettere di ridere” Guido Gozzano

Una risata chiude il film, contagiosa, irresistibile, di quelle che non sai perché ma ridi, e l’ultimo arrivato non sa cosa succede e chiede ma che succede?, ma poi ride anche lui, risucchiato dalla risata, perché è quel che ci vuole e his sadness makes him smile

C’è tutta la vita, pubblica e privata, dentro quell’appartamento di Bucarest, asfittico, ingombro di mobili vintage impregnati dell’odore stantio di decine di vite vissute, trascorse o work in progress, tracce di storie finite, ribollire di altre ancora attive.

C’è l’intero spettro dalla vita alla morte in quelle quattro stanze, cucina e bagno, porte a vetri e porte di legno che si aprono e si chiudono di continuo, segnando la scansione di storie slabbrate, indefinite, sospese a mezz’aria.

Dal neonato frignante in braccio alla madre fino al morto che aspetta, per trovar pace, il pope che finalmente arrivi e reciti le preghiere, asperga le stanze col suo turibolo d’oro e tutti insieme cantino le nenie funebri, uno spaccato della grande commedia umana è in scena.

C’è il sacro e il profano in questa giornata chiusa fra ora di pranzo e ora di cena, le tre ore del film sono il tempo reale della vita con i suoi lunghi piani sequenza e la grande famiglia riunita per il nonno Emil, morto da quaranta giorni.

Il canto funebre è il momento sacro, intenso, ha la bellezza delle liturgie millenarie che la storia non riesce a travolgere e la tradizione salva e fa sopravvivere a qualsiasi evento.

C’è l’anziana madre che vuol onorare il marito morto, nonostante una vita passata a far figli per ordine del Conducator e un marito che non era uno stinco di santo. C’è la zia Ofelia quasi catalettica dopo l’ennesimo litigio con lo zio Toni, uno che tutti lascerebbero fuori della porta di casa se l’ipocrisia necessaria alla sopravvivenza della famiglia non regnasse sovrana. C’è l’anziana zia con colbacco di pelliccia che ricorda nostalgica i tempi eroici del partito unico. Ci sono i figli e i nipoti, ognuno con le sue nevrosi o solo manie, c’è poco affetto, solo il raccogliersi del branco nella tana comune.

Il raduno coincide col Natale, dunque non manca l’albero con le lucine, le pietanze sono quelle natalizie miste con quelle della tradizione funebre, c’è neve sui bordi delle strade,

Ma “vita mutatur non tollitur” recita un’antica preghiera e il nonno Emil, convitato di pietra alla mensa familiare, aleggia nelle stanze, è il reagente intorno al quale ruota un “dislessico” famigliare che è quanto di più realistico si possa mettere in scena.

Con la pazienza dell’entomologo Cristi Puiu osserva in vitro lo scatenarsi di conflitti e stress ai confini del patologico, li ridimensiona entro la solida cornice del “sistema famiglia” che dà parvenza di “normalità” a quel che altrimenti chiameremmo “follia”, crea un parafulmine che disperda a terra le scariche elettriche, ed è Lary, il medico, l’integrato, il realizzato, quello che non si coinvolge, tiene a bada, sorride sardonico.

Personaggio opaco, solo in apparenza perno, in realtà elemento marginale che le inquadrature spesso spostano ai lati dal centro, arriverà anche per lui il momento della verità, in quel magnifico esterno giorno (l’unico esterno insieme alla lunga sequenza iniziale della partenza per la casa di famiglia) dentro l’abitacolo della macchina sullo sfondo di un malinconico caseggiato grigio di sovietica bellezza. Nell’abitacolo della macchina, ripresi di spalle lui e la moglie, donnetta petulante dedita allo shopping compulsivo, l’ondata del rimosso di un’intera vita si rovescia su di lui e i singhiozzi saranno autentici.

Breve momento, si rientra in casa e tutto riprende come sempre, il dialogo non è mai costruttivo, le tensioni preesistenti sono sempre pronte a riemergere, i legami familiari ci sono, ma si avvertono come consuetudini stancamente ripetitive, ci si sopporta, un po’ si litiga, un po’ ci si ignora.

Se fosse possibile rendere visibili con un effetto speciale i fili invisibili che tessono le relazioni interpersonali, vedremmo sullo schermo un groviglio inestricabile, come una matassa di lana dopo il passaggio del gatto.

Dall’ormai lontano ma definitivamente incistato nella memoria collettiva 11 settembre, su cui non si finirà mai di chiedersi se fu complotto oppure no, al Charlie Hebdo di conio recente e anche quello oggetto di dubbi e perplessità, passando per Ceausescu e il dopo Ceaușescu (quando non si sta esattamente molto meglio di prima), le memorie tragiche dei quasi primi vent’anni del terzo millennio e i revisionismi storici di un Novecento traumatico e violento ci sono tutti, spalmati fra tinello e cucina, mentre si aspetta il pope per poi sedersi a tavola.Si finirà per farlo solo all’imbrunire, con involtini e polenta fredda che gli unici tre rimasti tagliuzzano svogliati.C’è sempre qualcosa che interrompe il fluire organizzato del tempo, ed è il chiacchiericcio che sale e scende di tono e timbro, scoppia a tratti in rombo di tuono o  diventa piagnisteo confuso man mano che gli incontri diventano scontri o s’incanalano di nuovo sui binari consueti.

Ritratto di famiglia (rumena, ma anche no) in un interno, l’abilità registica è eccezionale nel padroneggiare il flusso complesso dei temi che emergono e dei registri linguistici che si sovrappongono.

Come un diamante che riflette luce da un lato e irradia ombra da un altro, Sieranevada è un caotico pezzo di vita traboccante di arrivi e partenze, discorsi iniziati e interrotti, frustrazioni e rimozioni, e poi silenzi, quell’ammutolire improvviso perché non resta altro da dire.

Riderne, quello sì, si può sempre fare davanti ad un piatto ormai freddo e insapore.

Ma che succede? Nulla, è in onda la vita. E la Sierra? No, la Siera, tanto per dare un titolo dall’ortografia inesatta perfino, sarà impossibile tradurlo in altre lingue.

Sieranevada

Romania, Francia, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, 2016 durata 173′

regia di Cristi Puiu

con Mimi Branescu, Barbu Balasoiu, Judith State, Tatiana Lekel

 

 

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