Tarda primavera

 

Il vedovo Shukuchi, padre di Noriko, vuole che la figlia, ormai ventisettenne, si sposi. A premere è soprattutto la zia, a quell’età una ragazza deve assolutamente essere sposata, Nori è già in ritardo.

Nori è dolce, sempre sorridente, al punto che quando il sorriso sparisce dal suo volto ci preoccupiamo molto, e ne abbiamo ben ragione.

Lei non ha nessuna voglia di sposarsi, vuol restare col padre, condividere la sua vita tranquilla di lavoro e studio che fluisce silenziosa nella casa, interrotta solo dal buffo e ridanciano zio “immorale”, come lo apostrofa scherzosamente Nori, che si è voluto risposare a tutti i costi.

Nori vuol occuparsi del padre, delle sue camicie sporche, dell’ordine in casa, lui si troverebbe in difficoltà da solo.

Ci sono tante forme d’amore, nella vita, bisogna necessariamente star dentro gli schemi e le convenzioni sociali e prender marito? Ed essere infelice, probabilmente, come le dice il buon padre, anche se poi ci si abitua, e la madre morta spesso si rifugiava a piangere in un angolo della cucina. E’ una legge di natura.

Il sorriso di Nori, da un certo punto in poi del film, cambia, resta solo sulle sue labbra, non negli occhi.

Farà un ultimo viaggetto col padre a Kyoto, città che ha mantenuto il contatto con la natura, a differenza di Tokyo, mentre la primavera esplode nel suo più pieno rigoglio, e quindi indosserà il kimono delle spose.

Una sposa bellissima, esclama la zia (si dice di tutte le spose, per la verità, ma Nori è davvero bella, nonostante il bianco e nero).

Il padre ha smantellato le sue deboli difese, la vita di Nori non è la sua, “Io devo restarne fuori. È questa una legge della natura“.

Costruire la propria vita con una persona con cui s’impara a condividere tutto, questa è una legge di natura.

Non si diventa felici perché ci si sposa, ma nel costruire insieme una nuova vita; e ciò può richiedere anche molto tempo…

Lui, il padre, ha già vissuto (l’ipotesi ventilata di un secondo matrimonio con la brava vedova trovata dalla zia è servita solo per convincere Nori), dunque è giusto che resti solo a sbucciare quella mela in una casa ormai del tutto vuota.Poco importa se il gesto, all’improvviso, s’interrompe e la testa gli cade sul petto e la stanza sembra stringersi intorno a lui.Bisogna essere forti, la legge di natura lo impone, sembrano dire i sorrisi delle onde del mare che s’infrangono sulla battigia, mentre arriva il the end in giapponese.

Mangerà la mela con la buccia o finirà di sbucciarla, il saggio Shukuchi?

Ozu arriva così, con questo terzo film del dopoguerra, alla nudità estrema del racconto, ad un’essenzialità che soggioga, tanto è rigorosa, perseguita con caparbia determinazione (antecedenti in questo campo? sì, inevitabile pensarci, il teatro di Eschilo, l’assoluto universale nell’immobilità più totale) e dunque, osserva Galbraith: “Come Kurosawa, una delle cose più impressionanti di Ozu è la sua capacità di tagliare tutto il superfluo, riunendo tutto in una forma che è apparentemente semplice e senza fronzoli ma di monumentale espressività “.

Infelicità o felicità sono parole vuote, accettazione è la loro media, ai confini della rassegnazione, forse, ma la scelta non c’è, la vita fa il suo corso.

Eppure Tarda primavera comunica serenità e saggezza, quell’aggettivo, tarda, mette in guardia al momento giusto, prima di cominciare.

Stoicismo? Forse, il “teatro” di Ozu attinge ad una sapienza antica che sa sorridere con leggerezza e le gag, sornione, non mancano ( “dov’è il mare? e da che parte sta Tokyo? a est? ma est è sempre là? Naturale! Ha fatto bene Yoritomo allora a fondare lo shogunato in questo posto!è davvero indistruttibile”) e neppure le battutine salaci (Satake, il futuro marito, è un chimico che sembra proprio “come Gary Cooper, quello del film sul base ball che hanno dato da poco”).

La zia, pedante come una comare trafficona nella sua semplicità, si scandalizza di una sposa che ha mangiato tutto, durante il pranzo, e ha bevuto perfino il sakè, mentre lei non riuscì a buttar giù neanche una polpetta di riso. “Oggi mangeresti tutto anche tu” le dice ridendo Shokuchi (figuriamoci, dopo la guerra in Giappone avrebbero mangiato anche i gatti!)

Una lunga sequenza ci fa assistere, con Nori e Shokuchi, ad una scena del teatro Nō. Il teatrino è senza pretese ma lo spettacolo è solenne, perfetto, gli spettatori sono assorti, immobili, rapiti. Sequenza successiva, padre e figlia, di spalle, tornano a casa camminando lungo un viottolo sterrato fuori mura, tra cespugli incolti. E’ una vita semplice, che può comprendere anche il grande teatro di tradizione fra una cerimonia del té e una bevutina di sakè al bar.

Tutto è vita così come viene, e la macchina, accovacciata anch’essa sui cuscini nelle varie stanze separate da pannelli aerei, spesso decorati a ramage, fruga negli angoli, riprende di profilo o di spalle il parlare qualsiasi nel lessico quotidiano, mentre percorre inesorabile ogni muscolo del viso quando è lì che si addensano le emozioni, e ce le fa leggere.

Fascino di un grande cinema, quello di Ozu,che non cerca spettacolarità, azione, trasalimenti.

Della fondamentale problematicità e conflittualità del reale, della sua contraddittorietà scarica le tensioni nella suprema compostezza della forma. L’assurdo del vivere umano si riscatta così, nella sua accettazione, che non è sconfitta, solo consapevolezza.

titolo originale: Banshun 

Giappone, 1949 durata 108’

di Ozu Yasujiro

con Ryu Chishu, Hara Setsuko, Tsukioka Yameji, Sugimura Haruko

 

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