Violent cop di Kitano Takeshi

 

“Una violenza dolorosa, improvvisa e spaventosa che non fa venire voglia di imitarla, ma di fuggirne” dice Kitano di quella che intride i suoi film, questo in particolare, dalla prima all’ultima sequenza. 


Violenza mai fine a sé stessa. Quello che rimane, mentre scorrono i titoli di coda, è la sensazione di aver assistito ad una tragedia. 


Gli ingressi dell’ eroe protagonista in scena sono sempre risolutori, schiaffi e calci, coltelli e pistole, macchina lanciata contro il malvivente in fuga.


Il commissario Azuma non conosce l’arte della persuasione che non passi per questi mezzi, si tratti di teppistelli di buona famiglia che riducono in fin di vita un barbone o di un magnaccia che maltratta la sua donna, di yakuza al soldo di boss malavitosi con coperture importanti o di vigliacchi approfittatori della sorella tossicomane.


Silenzioso e sardonico, sempre al verde, battute poche, ma micidiali (“Commissario, ma si dice che una volta ha colpito un bambino…” “Per forza, gli avevo puntato contro!”) si aggira per una Tokyo ripresa con angolature di perfezione geometrica, con quel passo dinoccolato, un po’ traballante, ritmato da Daisaku Kume che riscrive Satie, scelta spiazzante e coerente di un musicista che sembra il fratello di latte di Kitano (come dimenticare l’anatema del grande, stravagante musicista francese contro i “malfattori che speculano sulla corruzione umana”?) e ci viene incontro su quel ponte in una ripresa frontale dal basso, che lo fa crescere man mano che avanza tra bambini in fuga nella direzione opposta perchè hanno gettato lattine vuote dal ponte sul battello che passava.


Non c’è scampo in questi bassifondi metropolitani di Kitano, di fronte ai quali quelli di Gorkij e Kurosawa appaiono mondi romantici.


Prodotto di una svolta epocale  di portata incontrollabile, è un mondo non più rappresentabile secondo gli stilemi canonici del poliziesco tradizionale o d’avanguardia,Violent cop è un film fuori da tutte le regole.
 Kitano fa sempre a modo suo, anticonformista e ribelle, grottesco e umoristico, variegato, mai spettacolare, intriso di passione e capace di infinita dolcezza, riesce a disorientarci con l’eccesso e, un attimo dopo, a farci pensare che in fondo è proprio così che vanno le cose.


E allora può anche succedere che il violento Azuma passi del tempo a scorrere una galleria di dipinti di Chagall, o si fermi di fronte al mare, in silenzio.


Attento ai minimi particolari, si sente il suo controllo su tutta la costruzione del film, il primo della sua carriera registica e già pienamente capace di essere stile, linguaggio, allegoria.


Lunghe carrellate o inquadrature fisse, scazzottate al ralenti, inseguimenti à bout de souffle, spietate sparatorie, e poi i temi cari al regista, l’amicizia, il tradimento, la malattia, c’è già tutto per i prossimi capolavori.

La descensio ad inferos di Azuma si chiude con un finale nichilista, la preparazione alla morte, tema preponderante nel cinema di Kitano, trova qui il suo prologo. 
Seguiranno gli episodi, gli stasimi e, da ultimo, l’esodo, per questo grande tragediografo dell’età contemporanea.

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Violent cop

titolo originale: Sono otoko, kyobo ni tsuki 

Giappone, 1989, durata 103’

regia di Takeshi Kitano

con Takeshi Kitano, Maiko Kawakami, Makoto Ashikawa, Shiro Sano

 

Takeshi Kitano

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