Vivere di Kurosawa Akira

Vivere è una meditazione sulla vita e sulla morte. Alle spalle di Kurosawa sentiamo la lezione di Welles in Citizen Kane, un accostamento fra Umberto D e Watanaba, il protagonista, è d’obbligo, ma c’è soprattutto la grande narrativa russa, da Gogol a Dostoevskij, senza dimenticare le suggestioni del Faust, a suggerire rimandi ed equivalenze per quest’opera di un regista capace di muoversi sempre con naturalezza dentro prospettive intellettuali cosmopolite, per raccontarci di popoli e individui con la semplice verità dell’epos di ogni tempo.

Watanaba è un travet qualsiasi della sezione civili del Comune, la morte incombe su di lui con un cancro allo stomaco, macchia scura ben visibile nella radiografia che campeggia in apertura sullo schermo.

Nel piloro ci sono evidenti sintomi di un cancro, ma il protagonista della nostra storia non ne sa nulla”, dice fredda la voce fuori campo.

Ben presto lo saprà anche lui, e all’improvviso il non senso di tutta una vita passata a non vivere gli sfilerà davanti, perché il momento dei bilanci arriva per tutti, anche per chi ha scelto di lasciar scorrere il suo tempo senza mai fermare l’attimo per dirgli “Sei bello”.

Con l’angoscia del naufrago che non vede nessuna riva a cui tendere, Watanaba annaspa fra inutili tentativi di fuga, per un recupero in extremis di un tempo e di una gioia che si è negato sempre.

Alibi ormai inconsistente è la dedizione trentennale al figlio rimasto orfano piccolissimo della madre (ora quel figlio è chiuso nella ottusa indifferenza dei figli affrancati dai padri), il bilancio di un lavoro dietro la scrivania ad accrescere pile di scartoffie in cui affogano miseramente le istanze di cittadini intrappolati nelle spire della burocrazia è perdente,e allora Watanaba tenta di affogare in dosi massicce di sakè e locali notturni il pensiero della morte.

Gli fa da mentore un Mefistofele gentile e disinteressato ai suoi yen e alla sua anima (forse si è accorto che non ne ha più tanta), le donnine allegre e conturbanti di una dolce vita giapponese post-bellica, molto accordata su sound americaneggianti, non scalfiscono la sua corazza impacciata.

Solo Toyo, la giovane impiegata del suo ufficio, povera e sorridente, infaticabile creatrice di calzanti soprannomi per i colleghi (lui è “la mummia”, gli confessa) riuscirà involontariamente a fornirgli la chiave per la salvezza:  è il coniglietto meccanico di péluche, di quelli che lei ama costruire per la gioia dei bambini.

Watanabe ne è folgorato, ora sa come riscattare la sua vita in cui non c’è più tempo per odiare o arrabbiarsi, ogni ostacolo sarà superato, ogni umiliazione ingoiata testardamente a capo chino e spalle curve per fare quello che ha deciso: dare corso ad una pratica.

In questa pratica c’è la possibilità di un giardino che darà fiori, luce e aria alla povera gente del fetido quartiere di Huroecho.

In quel giardino Watanaba morirà in una silenziosa notte di neve, dondolandosi sull’altalena mentre canta ancora una volta “La vita è così breve”, con quel timbro di basso che aveva fatto ammutolire tutti al night, una delle sere in cui girava solo, 

Kurosawa riesce a raccontarci una favola mentre ci descrive con amaro realismo  un mondo molto vero, con i disastri di un dopoguerra non  dissimili da quelli di oggi, una società in cui ottusità, cinismo, rampantismo e servile ossequio mistificatore della verità la fanno da padroni, e lo fa con enorme sapienza di costruzione filmica, ricorrendo ad un montaggio che avviluppa fulminei flashback sul filo conduttore della storia, creando un ritmo narrativo serrato con prolessi e analessi tenute con salda mano a restituire la complessità del reale nella sua scorza esterna e nelle sue motivazioni interiori, punta l’occhio della macchina su frequentissimi primi piani dei volti, con una carica espressionista da choc emotivo per lo spettatore.

Nessun patetismo, nonostante il tema, Watanabe è un eroe molto chapliniano, la vita non è meravigliosa per Kurosawa, ma la voglia di far qualcosa e viverla, comunque e finalmente, può anche starci, piuttosto che affogare fra pile di pratiche inevase.

Vivere

titolo originale: Ikiru

Giappone 1952 durata 143’  b/n

regia di Kurosawa Akira

con Takashi Shimura, Nobuo Kaneko, Kyoko Seki, Makoto Kobori

____________________

Le immagini presenti nell’articolo appartengono ai rispettivi proprietari e sono utilizzate al solo scopo di corredare il testo.