Festival del Cinema Spagnolo 10ª edizione – El olivo

Iciar Bollain, classe 1967, ha una lunga storia alle spalle, a partire dal suo esordio nel cinema a 15 anni con Victor Erice in El sur.

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Lungo questa strada le tappe sono state quelle di un’artista capace di firmare opere intense ed emozionanti, storie al femminile (Hola, ¿estás sola?, Flores de otro mundo, Ti do i miei occhi) in cui il tema centrale, il viaggio di formazione, si avvale di un’economia recitativa minimale che lascia lo sguardo spaziare libero sul territorio mobile e articolato dei personaggi e delle loro evoluzioni.

L’incontro al tempo di Terra e Libertà (1995) con Paul Laverty, sceneggiatore di Loach, è stato uno di quei momenti fatali da cui non può che scaturire del bene, e si arriva così a El Olivo, un film in cui regia, sceneggiatura, recitazione e fotografia creano un amalgama virtuoso che commuove e diverte, dà alla storia gravità e leggerezza, accarezza lo sguardo mentre parla al cuore.

El olivo è una storia vera, o verosimile, che però somiglia ad una fiaba, meglio ancora ad un apologo, di quelli del buon tempo antico, ma il tempo in cui tutto accade è il presente, brutale, cinico, tempo in cui un esemplare unico al mondo di olivo millenario può essere espiantato dal suo habitat naturale (siamo dalle parti di Valencia) e per 30.000 euro trapiantato nell’asettica hall di una multinazionale di Düsseldorf, la RRR Energy International.

Suprema ironia dell’invenzione cinematografica più vera del vero, Laverty rimuginava da anni sullo scempio di antichi alberi spagnoli venduti tra Europa e Asia per decorare opulente magioni di sceicchi arabi o prestigiosi grattacieli dell’alta finanza.

In El olivo una multinazionale tedesca dal nome fittizio, ma emblematico, vuol rifarsi una verginità proponendo un olivo di duemila anni nel suo logo e piazzandolo in bella vista nell’androne di acciao, cristallo e segretarie strizzate dentro mini-tailleurini, pieno di gorilla ammaestrati come mastini napoletani ad azzannare chiunque oltrepassi la soglia di sicurezza del bon ton.

Saldamente ancorata al principio del “ti distruggo la natura e te la ripropongo in cartolina”, la RRR Energy International non avrebbe mai immaginato che un giorno, dodici anni dopo l’acquisto del grande olivo dal tronco nodoso, contorto, fitto di pieghe e incavi bui che sembrano la faccia di un mostro, sarebbe arrivata a scatenare il putiferio quella pazza di Alma, una Anna Castillo (premio Goya) perfettamente calata nella parte che regista e sceneggiatore le cuciono addosso con abilità di alta sartoria.

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Alma è l’anima del film, giovane donna diversa, coraggiosa, sfrontata, un po’ punk, con quei capelli “strani”, la discoteca di sera e le corse in moto tra filari di ulivi a perdita d’occhio.

Nonostante sia figlia del suo tempo, tra Alma e quel mondo agricolo dove la sua famiglia, schiacciata nella morsa della crisi, vive a fatica, c’è un legame viscerale che non si concilia con il triste versante prodotto a livello planetario dallo sfruttamento industriale della terra.

Nella scena d’apertura è nell’hangar dei polli in batteria dove lavora per l’azienda di famiglia, fra un gran volare di piume di poveri animali presi per le zampe e gettati come straccetti nelle carrucole.

Alma però sembra la reginetta delle favole e spicca in mezzo al gran prato giallo di pulcini che le pigolano intorno.

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Alma e il nonno, il vecchio e la bambina.Tra il passato che torna nei flashback e il presente in cui si raccolgono i cocci rotti di scelte forzate, sbagliate, contro natura, dei vari componenti della famiglia, si delinea una storia privata che è anche cartina di tornasole di una condizione umana epocale, in bilico amaro tra un passato ormai defunto e un futuro incerto e caliginoso. I due avevano lottato con le loro deboli armi contro il resto della famiglia, costretta dalle difficoltà economiche ad accettare il denaro per la vendita dell’albero.

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Era stato un tradimento che non si poteva perdonare perché l’ulivo è sacro, è il simbolo della terra. Alma bambina si arrampicava sui suoi rami, il nonno le raccontava fiabe alla sua ombra e ora il vecchio non parla più, si è chiuso in un cerchio stretto dove entra solo lei che continua a parlargli, ma inutilmente.

Alma non può accettare di vedere il nonno spegnersi in quella grande malinconia e così inventa storie e bugie pur di arrivare a quell’ulivo e riprenderselo per riportarglielo.

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Impresa folle e disperata che la porterà fino a Düsseldorf con gli altri due personaggi forti del film, lo zio e l’operaio dell’azienda che ha per lei un amore devoto e tenerissimo, lungo il viaggio si dipana un’Europa irriconoscibile, ormai priva di quel collante che un tempo la rendeva un continente unito pur nelle innumerevoli differenze.

Territorio devastato dalla globalizzazione, i tre picari che l’attraversano sembrano caduti sulla terra da altri mondi, ma quello che li salva è una forza che viene dal profondo, un’ energia che attrae e scatena la partecipazione solidale di giovani di altra cultura e altra lingua che davanti a quell’ulivo tornano ad essere figli di una patria comune.

E’ il momento più trascinante del film, seguito dal finale, un esemplare di quel realismo magico che, di tanto in tanto, fa parlare di grande cinema.

Il cinema contemporaneo spagnolo si conferma con El olivo territorio di grande vitalità e interesse, mondo di idee, autori e professionalità capace, per citare Jaurés, “di ricercare l’ideale e capire il reale e non farsi l’eco degli stupidi applausi e dei fischi esaltati “.

Spagna 2016, durata 100’
di Iciar Bollain
con Javier Gutiérrez, Anna Castillo, Juanma Lara, Nikolai Will, Pep Ambròs, Manuel Cucala, Paula Usero, Carme Pla, Miguel Angel Aladren, Ana Ulloa, Inés Ruiz
sceneggiatura Paul Laverty
fotografia Sergi Gallardo

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