Shutter Island di Martin Scorsese

 La mia vita è la storia di un’ autorealizzazione dell’inconscio.

Con questo C.G Jung ha aperto possibilità interpretative illimitate e illuminanti, che tranquillamente (si fa per dire) possiamo trasferire anche a tutto quello che della vita reale è rispecchiamento, e dunque oggetto d’arte in primis.

In questo senso la vicenda di Teddy Daniels (Di Caprio) in Shutter Island di Scorsese è esemplare.

Anni ’50 in America, imperversa il maccartismo, alle spalle, da poco, gli orrori visti e filmati nei campi di sterminio (Dachau e Auschwitz vengono abilmente confusi nei ricordi di chi ha bisogno di rimuovere l’indicibile e l’incommensurabile).

Questo è quello che si chiama il contesto storico, dove il plot pesca con frequenti flash back.

Lui (un ottimo Di Caprio), ispettore federale inviato con Chuk a Shutter Island, al largo della costa del Massachusetts, in un sinistro carcere per pazzi criminali a indagare sulla sparizione di una detenuta pericolosa, è quel che si dice un “ modello comportamentale”, e tutto quel che Scorsese gli costruisce intorno lo rivela ma, attenzione, con abilissima tattica dissuasoria, con distrattori continui che solo la maestria di un grande del cinema riesce a dosare con tanta perizia. Lo spettatore è continuamente spiazzato e poi rimesso in sesto, costretto a richiamare tutte le sue capacità di flessibilità mentale di fronte ad un’azione che sembra procedere sicura, su una via maestra, da inquadrare solo entro il filone appropriato (thriller? giallo? giallo/horror? gotic novel?) e all’improvviso si spezzetta in mille sfaccettature, i conti non tornano più, chi sta facendo cosa? Dov’è il famoso bandolo della matassa?

La maestria di cui sopra è tutta nel condurci attraverso dissonanze continue, marcate potentemente da un sonoro perfetto, con martellamenti dosati, non frastornanti, una metrica del testo con arsi e tesi a segnare i passi nel delirio, in un territorio sconfinato, quello della mente, e farcelo frequentare come l’unico luogo possibile, sempre a patto che se ne accettino le regole.

Alla fine della visione capiamo di aver percorso un delirio molto reale, e allora possiamo anche cercare le cosiddette oggettività fattuali (tipo, i morti sono morti!) , ricostruirci un plot mentale mettendo insieme i dati, ma l’esercizio è sterile e anche qui ci soccorre Jung: “Questa intera creazione è essenzialmente soggettiva, e il sogno è il teatro dove il sognatore è allo stesso tempo la scena, l’attore, il suggeritore, il direttore di scena, il manager, l’autore, il pubblico e il critico.”

L’acqua è una delle componenti forti del film, il più presente tra gli altri simboli (l’isola, il faro, il doppio, la scala a chiocciola) fin dalla prima scena, quando il traghetto esce dallo sfondo lattiginoso di nebbia alla Gordon Pym.

Teddy ha chiari sintomi di mal di mare, ma il mare è calmo, dunque perché? L’acqua lo bagna costantemente, che sia l’ uragano o lo sgocciolamento da tubature e fessure di pareti fatiscenti, o il mare mugghiante dove scende, con la facilità che solo nei sogni, lungo una parete di roccia a strapiombo, mentre frotte nere di topi invadono lo schermo uscendo da una fessura (le stesse putride bestie che pullulano nella piazza degli appestati del Nosferatu di Herzog), o che siano, infine, le chiare, fresche e dolci acque del laghetto davanti casa, dove si è consumato l’eccidio della sua vita, e da cui riemerge la folle, bionda, bellissima e amatissima moglie che ha in braccio tre cadaverini e gli chiede di liberarla. Ma da chi? da cosa?

Rimuovere si può, certo, ma non si cancella nulla e la percezione della realtà esterna, verso la quale aderiamo in modo irremovibile, altro non è che il nostro teatro mentale, e coloro che vi si muovono non hanno minor legittimità dei corpi fisici.

Medici e secondini, malati e infermieri, tutto sfila nell’ordine che crediamo sia l’ordine, questo ci dice il junghiano, ma c’è anche la pulsione ad “individuarsi”, a ripescare cioè l’ “io”, quell’isola razionale necessaria a ricomporre l’unità psichica per diventare “sé stessi”.

Ed è a questo punto, prima che sfilino i titoli di coda, che Teddy o Edward, pazzo omicida o ispettore federale preso in trappola, non lo sapremo mai, si chiede, o meglio, dice a Chuk, il suo assistente, o a quello che è il suo psichiatra:

Sai, questo posto mi fa pensare se è meglio vivere da mostri o morire da uomo perbene“.

Tutto questo riesce a dirci Scorsese utilizzando un repertorio di soluzioni registiche mirabolanti, il film è addirittura come “plasmato” dalla sua mano, fatto emergere a prendere forma dalla materia grezza a colpi di scalpello, e le analisi potrebbero durare molto a lungo e forse non basterebbero.

L’arte conserva sempre il suo cono di mistero.

Come il Prospero di Shakespeare, non resta allora che consegnare “il nostro libro magico all’incoscienza e alle profondità dell’acqua”.

Prospero’s books di W. Shakespeare

 

Shutter Island

USA 2009 durata 138’

di Martin Scorsese

con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Emily Mortimer, Michelle Williams, Max Von Sydow, Jackie Earle Haley, Patricia Clarkson, Elias Koteas, Ted Levine

 

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