Nuvole di maggio di Nuri Bilge Ceylan

Ceylan e la sua recherche, luoghi, nomi, volti di un tempo perduto che vuol fissare nel cinema, non sapremo quale sarà il titolo, il plot, non sapremo neppure se riuscirà a girare il film, vediamo Muzzafer, il suo alias, andare e venire con l’attrezzatura scalcinata nel paesello dei genitori, vuol convincerli a recitare nella parte di sé stessi, la madre recalcitra, il padre meno, vedersi sullo schermo così invecchiati! e poi c’è il campo a cui badare, gli alberi che il catasto vuol tagliare e bisogna impedirlo a tutti i costi, “sono cinquant’anni della mia vita”, non possiamo perder tempo con il cinema, bisogna esser là quando arriveranno!

Ma alla fine si convincono, questo figlio che pensa al cinema e non a far soldi, ahimè, brontola la madre di notte, tirando la coperta al padre, e così nasce un piccolo set sotto quegli alberi, e il padre, paziente, prova e riprova le battute, ma non è facile, bisogna ripetere, non staccare le parole, non guardare in macchina, così si butta via tanta pellicola e Muzzafer/Ceylan non ce la fa più, quasi perde la pazienza, ma poi li guarda, i suoi cari vecchietti che mangiano un panino sul bordo del fiume, e in quello sguardo c’è tutto l’amore del mondo.

E’ una delicata sinfonia pastorale a cui regalano, di tanto in tanto, sfondi sonori Bach, Handel e Schubert, Čechov è il nume tutelare, Kiarostami il fratello maggiore.

Un film da ripensare dalla fine all’inizio, e allora le tessere del mosaico si compongono a raccontarci storie importanti e vite di poco conto, la Turchia e le sue guerre, le rivoluzioni, Atatürk, i cippi ai caduti, la corsa alla modernizzazione che tutto travolge, il presente difficile e il tempo che passa e toglie allo zio Pire, memoria storica di tante imprese, la vecchia moglie che gli faceva compagnia in quel casolare sperduto nella campagna, e la sua battuta continua ad essere sempre quella, con quel modo dei vecchi di ripetere la stessa cosa come per aggrapparvisi, sono rimasto solo.

Emin e Fatma Ceylan prestano al figlio il loro volto, Muzzaffer Özdemir e Emin Toprak saranno in coppia anche in Uzak, qualche anno dopo, il primo è l’incarnazione di Ceylan regista, stessa faccia scarna e poche parole, lo sguardo di uno che non vuol mollare, anche se sa quanto sia dura.

Non ha la stessa frivola incoscienza di Ljubon’ Andreevna, ma sembra dire le stesse parole: “Io sono nata qui, qui sono vissuti mio padre e mia madre, mio nonno! Voglio bene a questa casa, senza il giardino dei ciliegi io non capisco più la mia vita!”.

Emin Toprak è l’operaio Saffet che ha lasciato il lavoro per diventare suo assistente, vuol fuggire dal paese, da padre, madre e sorelle, come tutti i giovani, e andare a Istanbul, non gli importa né come né dove dormirà, cosa farà, Muzzafer gli dice resta qui, meglio lavorare la terra, non c’è lavoro a Istanbul, ma lui è Emin Toprak, con quella faccia da sfigato, da vinto che non si vuol convincere, all’Università non l’hanno preso, fuma e beve tè mentre legge la lettera che gli ha dato il postino nella prima scena.

Sulla sua faccia sembra calare un sipario.

Nell’ultima scena se ne va dal set dove non c’è futuro, sgarbato dice all’aiuto regista che gli tende il cavallettoportalo da te” , e dà un calcio per terra.

Ceylan indugia a lungo sui personaggi, si sofferma sulle cose, gli insetti, gli animali, con quella sensibilità che i giapponesi chiamano mono no aware, la piccola tartaruga occupa una lunga sequenza interrotta dalla pioggia, rossi pomodori rotolano lungo il pendio come biglie dispersi dal calcio rabbioso del piccolo Alì, il folletto del film, nove anni e lo zaino della scuola sempre in spalla, quel pesante cesto di pomodori alla fine gli ha fatto rompere l’uovo che aveva in tasca!

Quell’uovo, yumurta, doveva tenerlo lì per quaranta giorni senza romperlo, così gli aveva detto zia Fatma, per sviluppare il suo senso di responsabilità.

“Puoi lessarlo” gli aveva suggerito, sornione, Muzzafer.

“Sarebbe un imbroglio!” l’aveva guardato stupito Alì.

Come premio c’è l’orologio musicale che Alì ha visto in negozio, ma quando sente l’accendino dell’aiuto regista che suona la Lambada cambia idea e dice a Fatma che vuole quello, ma poi l’aiuto regista glielo regala e … s’impara presto a non essere troppo intransigenti con sè stessi, e se quella volta è corso nel pollaio a rubare un altro uovo (la sua fuga a gambe in spalla è uno dei gioielli del film), adesso dice a zia Fatma che ha cambiato ancora idea e vuole di nuovo l’orologio (ma naturalmente non le fa vedere l’accendino che nasconde in tasca!).

Mayis sikintisi è un mondo di cose che si svelano nel retrogusto, nasce come per caso e poi ci si accorge di non aver dimenticato neanche la più piccola scena.

Tutto acquista rilievo e racconta, il simbolismo si sovrappone leggero, come le nuvole di maggio che scorrono nel cielo e Emin le guarda dal cancello di casa, forse pioverà, se si abbassano, ma forse no, maggio è un mese pieno di sorprese, come la vita.

Ceylan dedica il film a Čechov, ha imparato da lui a rendere fondamentali le piccole cose della vita e, come lui, scarta la tragedia, sceglie la semplice elegia quotidiana, tra Brook e Stanislavskij nel rappresentare lo spirito del grande russo sceglie il primo, senza esitazioni.

Il cinema e la vita s’intersecano con la stessa naturalezza che fondeva il teatro di Čechov alla vita, il bel viso di Emin nell’ultima scena, rimasto a guardia dei suoi alberi, ci ricorda Firs e il suo Giardino dei ciliegi:

La vita è passata, eppure è come se non l’avessi vissuta affatto”.

Prix Européen de la Critique 2000, premio FIPRESCI, Grand Prix du jury alla tredicesima edizione del Festival de cinéma Premiers Plans d’Angers, Premio Don Quichotte al Forum Européen de Strasbourg e Prix du meilleur film al Festival de Bruxelles.

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Nuvole di maggio

titolo originale Mayis sikintisi 

Turchia, 1999 durata 130’

regia di Nuri Bilge Ceylan

con Emin Ceylan, Muzzaffer Özdemir, Fatma Ceylan, Muhammad Zimbaoglu

 

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