Una valigia e due lingue di Ozgur Dogan, Orhan Eskikoy

Nei dintorni di Sanliurfa, o solo Urfa, Anatolia Sud Orientale, in un paese chiamato Demirci (ma chiamarlo paese é un atto di fede!) c’è la scuoletta di cui si parla nel docu-film, girato nel 2008 da Ozgur Dogan e Orhan Eskikoy, giovani registi turchi muniti di pochi mezzi e tanta voglia di dire come stanno le cose a proposito di questione curda vista da un’angolazione insolita, il sistema d’istruzione elementare.

Dunque, Urfa.

Un giorno, tanto tempo fa, c’erano i Caldei da quelle parti, pare che Urfa, l’antica Edessa, sia l’erede della biblica e gloriosa Ur. Grande storia, tutta da dimenticare.

Demirci è un posto di poche casupole in pietra dagli interni che dire spogli è usare un bell’eufemismo.

Inserito in un habitat fatto più che altro di ammassi di pietre, ingentilite solo dalla neve che le copre d’inverno e da una leggera foschia che sa tanto di fumi da inquinamento per il resto dell’anno, per il sole a picco d’estate non c’è scampo, niente verde.

L’acqua corrente manca e trovarne un po’ in una vena sotterranea è una scoperta che si festeggia come una vena d’oro. Qualche smilzo animale si ritira in casa la sera con i padroni.In una pozzanghera più larga delle altre, formata da uno sparuto corso d’acqua, i bambini del posto si tuffano vocianti durante le vacanze estive.

Sì, le vacanze estive. Infatti, sembra strano ma c’è una scuola. C’è anche un giovane maestro. Arriva con una valigia su un carro traballante.

E’ Emre Aydin, viene da Denizli ed é al suo primo incarico.

Dal Diario di un maestro di De Seta nella Pietralata pasoliniana anni sessanta, passando per Il primo incarico di Giorgia Cecere, Salento anni cinquanta, pare che il polso di un paese e del suo grado di civiltà si possa misurare dal livello della sua scuola primaria.

Demirci é un posto abitato da curdi, in quel territorio che loro chiamano Kurdistan, abitato da 30 milioni di persone sparse tra Iraq, Iran, Armenia e Siria.

Una nazione senza sovranità nazionale.

Una ventina di bimbetti che il volenteroso Emre racimola casa per casa, iscritti o non iscritti, saranno la sua pluriclasse, dalla prima alla quinta, tutti nella stessa stanza a cercare di capirsi in qualche modo, perché loro parlano curdo e lui turco.

Lode alla libertà d’insegnamento in Turchia, Emre ribalta la programmazione decidendo che, almeno per l’anno in corso, insegnerà solo a leggere e scrivere nella sua lingua, in seguito verranno le altre materie.Pochi fra gli uomini del paese parlano turco, l’hanno imparato come lingua straniera durante il servizio militare. Dunque sarà così anche per i bambini, impareranno una lingua straniera e potranno copiare senza errori la frase che il maestro scrive alla lavagna:

“Sono un turco, sono onesto, lavoro duro. La mia esistenza deve essere dedicata all’esistenza turca. Felice chi può dirsi turco.“

 Iki Dil Bir Bavul (On the Way to School) é un film scarno, smilzo come l’asinello o il gattino che attraversano lo schermo.

Il maestro Emre è pieno di sacro fuoco ma si deve misurare con una realtà che qui era scenario consueto fra le due guerre, quando i maestrini e, forse più, le maestrine di nuova nomina, si arrampicavano per colline e montagne desolate pur di lavorare.

Ha una stanza piena di formiche, l’aspirapolvere smette subito di funzionare, fa una vita da cenobita che solo le telefonate alla madre riempiono, eppure si dà da fare, nonostante qualche crollo su cui la mdp si sofferma appena.

Non deve risultare simpatico a tutti i costi, Ozgur Dogan e Orhan Eskikoy non hanno mire propagandistiche, proclami da fare, eroi e missionari da esibire con rullo di tamburi.

Bastano le immagini.

Il loro è cinema dello sguardo e dell’ascolto allo stato puro, una scrittura classica che registra la realtà senza manipolazioni, affida la comunicazione verbale ad uno script essenziale e quella psicologica a rari primi piani. Qualche campo fino all’orizzonte basta a raccontare vita e morte di un popolo, un gruppetto di ragazzini in cerchio, seminascosti in una buca della pietraia, entra per qualche secondo in una inquadratura in campo medio. Giocano, come fanno sempre i bambini, adattandosi all’habitat che li comprende.

Iki Dil Bir Bavul non spettacolarizza. Se la macchina scende ad osservare un dettaglio è sulla matita che scorre incerta sul quaderno o sulla mano di un padre che porta le penne al figlio che non le aveva mai avute. Può risultare scarnificato come un osso nell’uso essenziale dei codici espressivi, ed infatti è tale.

Alla fine dell’anno, quando Emre parte, c’è solo un “ciao maestro” da parte di quei ragazzini.

Hanno piantato con lui un alberello nel cortile della scuola, qualche parola in turco ora la sanno, sempre che serva a qualcosa se il loro futuro si consumerà lì a Demirci o, come più probabile, nelle fila del PKK , che non basteranno gli sforzi di Erdogan a smantellare.Allo spettatore non resta che chiedersi se quei bambini dell’ultima scena, felici di tuffarsi in acqua, sono felici di potersi dire turchi.

Ma usciamo dalla storia e siamo ottimisti! Nonostante tutto sembra che qualcosa stia cambiando in Turchia se, dopo decenni di una guerra definita a “bassa intensità”, che ha fatto migliaia di vittime negando il più elementare dei diritti al popolo curdo, la sovranità nazionale, relegandolo ai margini del tessuto sociale ed economico, per girare questo film i due registi hanno ottenuto il permesso dal ministero dell’educazione e anche un sostegno finanziario di 50mila Lire Turche (ca. 23mila Euro)!

Se puoi contare

le foglie di quei giardini

se puoi contare

tutti i pesci grandi e piccoli

in quel fiume che scorre davanti a te

e se puoi contare

tutti gli uccellli nel tempo delle migrazioni

dal Nord e dal Sud,

allora ti prometto che io conterò

i martiri del mio paese Kurdistan

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Una valigia e due lingue

titolo originale Iki Dil Bir Bavul

Turchia, Paesi Bassi 2008 durata 81’

regia di Ozgur Dogan e Orhan Eskikoy  

con Emre Aydin, Rojda Huz, Vehip Huz, Zulkuf Huz, Zulkuf Yildrim

 

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