Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu

Yusuf, ancora giovane, è già abbastanza avanti su quel piano inclinato lungo il quale si rotola senza chiedersi più perché si é al mondo.

Poi succede, si torna da dove si era partiti, ci si addormenta sotto un albero e la pallina dei giochi infantili che rotola sul palmo della mano cade e si rompe nel sogno come un uovo, yumurta, l’embrione, l’origine della vita che si schiude di nuovo.

Denso di simboli nella sua nuda semplicità, primo film di una trilogia (seguiranno Sut, Latte, e Bal, Miele, quest’ultimo, Orso d’Oro a Berlino 2010, pressochè introvabile e ignorato dalla distribuzione) opera di un regista che gira come un poeta minimalista, suggerisce, raccoglie sguardi, sorrisi fugaci e silenzi per dire di un amore che può nascere, di un dolore che può non finire, di un mondo che forse ancora esiste nella campagna turca, dove si vive in semplici case povere ma tutti ti conoscono e ti fanno festa se torni, dove si va ad uccidere un ariete come rito propiziatorio, anche se non si sa bene perché, dove i morti diventano piantine sul davanzale di casa e ogni nome scomparso diventa un fiore con cui parlare, e la mattina si guarda nel pollaio se c’é l’uovo. Dove il bambino che bagna la tomba della madre morta di Yusuf con la tanica d’acqua e poi tende le mani come fanno i musulmani in Moschea, non voleva quella moneta che gli viene tesa, voleva solo pregare, e così alla fine del film la riconsegna a Yusuf.

Yusuf ha tanto da imparare da questo mondo che ha lasciato per correre in città e dimenticato, la madre lo ha aspettato e con lei Ayla, viso pulito, bello, vestitini paesani, si é presa cura della vecchia ed é vissuta con lei per anni (tutto a suo favore il contrasto con la prosperosa ragazza new age, addobbata per la serata di festa, che nella seconda scena entra nel negozio di libri usati di Yusuf in città a cercar ricette, mentre sullo stereo va un Debussy per cello e piano molto triste,).

Sembra che sia stato soprattutto Herzog a volere che Bal vincesse a Berlino.

Da Yumurta Semih Kaplanoglu fa dunque partire un viaggio di rinascita, una risalita alle fonti originarie che in Bal approda all’infanzia, lì dove è rimasto impigliato quel senso della vita di cui a volte si perdono i fili.

Spesso nel film Yusuf dorme, a volte parla brevemente dei suoi sogni, un’altra volta crolla inspiegabilmente a terra privo di sensi, e nell’ultimo sogno, di notte, bloccato in piena campagna da un cane enorme, ringhiante, che lo piantona e non lo fa partire per tornare in città, piange e poi si sveglia al suono dei campanacci di un gregge che si allontana.

E’ come se solo attraverso la perdita momentanea di sé Yusuf possa recuperare uno sguardo depurato sul mondo e sentire le vibrazioni che la vita gli manda.

E’ un poeta, una locandina ci racconta le sue illusioni e il tempo deludente che é trascorso da allora, le troppe sigarette che fuma dicono altro e un vecchio amore ritrovato in paese non emana più la magia di una volta.

Ayla è lì, gli offre quel té nei bicchierini di vetro che in Turchia sono un rito immancabile, gli dà le sue pantofole troppo corte e gli parla di mamma Zehra, che lui non ha più visto e che ritrova sul letto, coperta da un lenzuolo che non solleva, non avrebbe senso farlo ora che é cadavere.

La vecchia donna appare in apertura, sola, cammina sul viottolo di campagna uscendo dalla foschia e viene verso di noi, fino ad un primo piano, poi prosegue di schiena e sparisce.

Sarà una presenza incorporea per tutto il film, fino a quando Yusuf, determinato ad andarsene dopo il funerale e ogni volta trattenuto da fili invisibili, tornerà a sedersi al tavolo di quella povera cucina e Ayla, rientrando, gli darà l’uovo che ha appena raccolto.

Un sorriso appena accennato, si riconoscono. Non serve parlare, i cucchiaini tintinnano nei bicchierini del té mentre continuano a far colazione. Un tuono, arriva un temporale, ma é fuori, dentro c’é caldo.

Nei titoli di coda si ringrazia Nuri Bilge Ceylan, maestro del cinema turco da cui Yumurta surroga alcuni stilemi, pause di silenzio, movimenti di macchina ridotti al minimo, le immagini e i gesti che raccontano più delle parole.

La visione del mondo è però diversa da Ceylan, gli universi privati possono incontrarsi, nella semplice bellezza delle immagini, ma ognuno racconta pa propria storia.

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Yumurta

Turchia 2006 durata 97’

regia di Semih Kaplanoglu

con Nejat Isler, Ufuk Bayraktar, Saadet Isil Aksoy

 

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